mercoledì 20 ottobre 2010

Osservatorio Critico Università Roma2

La svestizione dell’attore

L’accattonaggio di Artaud. Prima di tutto. Torna, ad introduzione della nuova performance di Andrea Cosentino, una maschera nota. A manovrarne i gesti, Francesco Picciotti, a simularne la voce (registrata e lontana), il suo primo inventore. Nel ristretto spazio di Kataklisma Teatro, il processo teatrale avviene per gradi, nel passaggio dall’esterno - piazza tanto agognata - all’interno.
Il tempo a sua volta pare invertire logica, in un ritorno al futuro che vede sparsi in un angolo cadaveri di oggetti da rianimare e con cui tentare il contatto. Instabile demiurgo è il corpo attoriale, quasi fantoccio, ancora non del tutto clownesco. Così, Cosentino rompe il filo logico del discorso, appigliandosi alla mimica e ad una sonorità necessaria. Qualche verso, l’assurdità di un discorso tra una papera di peluche e un ranocchio dalla personalità instabile, una lettura tra l’attore e il suo doppio. Nel jeu de vivre della scena non c’è narrazione ma processualità in atto, ricerca di possibili e ironiche relazioni tra la materialità del corpo e quella dell’oggetto. Si riparte dal non-sense, dal grado zero. Durante il dibattito è Cosentino a spiegare come al di là di un tema da raccontare, siano la domanda e la ricerca sulla propria presenza in scena a dar vita al tutto. Dietro la figura che rappresento, cosa sono io? L’agire attoriale si destruttura e il teatro torna a riflettere su se stesso. 
E’ forse questo il dato più interessante dell’esperienza presentata da Esercizi di rianimazione. E’ la svestizione dell’uomo-attore che freme e sembra patire nel tentativo di tirare la corda dell’assurdo, di far ridere solo a partire dalla semplicità. Non personaggi, dunque, né individualismi di sorta. La volontà paradossale di chi agisce è proprio quella di abbandonare il potere dispotico della rappresentazione a partire dalla neutralità. Così, un cubetto di spugna acquista la propria identità con un naso rosso, nell’annuire, nel diniego e nella sofferenza oggettuale. Un campionario di scemenze che ad un certo punto diventa sublime, dice Roberto Ciancarelli. E il pubblico ride di un “riso sgangherato”. Eppure siamo solo all’inizio: chiediamo che la corda si tiri ancora e che il clown irrompa con più crudeltà. "C’è da irridere un morto".      

Francesca Bini
Osservatorio Critico Università Roma2
19 ottobre 2010

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