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Novo Critico 2010. Riflessioni su un rapporto in divenire


Evoluzione
Non è facile fare un punto della situazione.
Abbiamo seguito Novo Critico 2010 e su queste pagine ne avete avuto testimonianza. Dall'incontro conclusivo, ma non solo da quello, è emerso come certe correnti mosse da questo ricco evento abbiano raggiunto la foce in modo netto, senza disperdersi, arrivando a regalare una consapevolezza chiara a quanti ne abbiano preso parte come animatori o semplici osservatori.

Per due mesi interi dieci compagnie/artisti hanno incontrato altrettanti critici/studiosi: un campione rappresentativo per definire le linee di condotta di un rapporto ancora tutto da comprendere. L’incontro conclusivo ha visto alcuni dei partecipanti tornare sul palco a ricapitolare una sensazione di meraviglia nei confronti di quanto viva sia questa generazione di artisti e critici. Oltre a Elvira Frosini e Daniele Timpano, ideatori della manifestazione e padroni di casa, sono tornati Graziano Graziani, Antonio Audino, Claudia Cannella, Katia Ippaso, Massimo Marino e Andrea Porcheddu: tutti critici di una generazione avanti a noi, intervenuti parlando di quanta voglia di fare abbiano i giovani, di quanto desiderio ci sia di sperimentare. Sul lato della cosidetta "critica" si parla di un nuovo modo di scrivere, di un nuovo modo di comunicare, di nuove motivazioni, di nuove tecnologie, di nuovi target. E ben venga.
Eppure è forse un rischio vedere ovunque una novità. O comunque cercarla. Questo lo si impara sul campo, frequentando sale e foyer, in cui non sempre il nuovo coincide con il buono, in cui le riflessioni vincenti (e per vincenti si intende che progrediscono, che evolvono davvero, che non muoiono sulla porta del teatro) sono figlie dell’intraprendenza, della comunicabilità, ma non per forza del “mai visto prima”. Forse sarebbe utile accettare il cambiamento (di contenuti, di mezzi, di pratiche) non come qualcosa di straordinario ma di naturale. Stupirsi e compiacersi di una critica che usa altri mezzi, che “milita” in un modo nuovo sarebbe come stupirsi di un fuoco che si accende girando una manopola senza bisogno della pietra focaia.

Ecco perché scrivo qui di un rapporto “ancora tutto da comprendere”. Perché, come spesso accade, ancora prima della teoria, compare una questione di terminologia e di vissuto. Una questione di drammaturgia, se vogliamo. A mio parere, se una definizione univoca che inquadri la critica contemporanea non è semplice da formulare, non è neppure auspicabile. Potremmo davvero stare a discutere mesi su quali siano i ruoli, quali i compiti, quali i materiali, quali i metodi. Inciamperemmo fatalmente in quella terminologia che, anni fa, decise che la parola critico dovesse riferirsi a qualcuno che faceva da censore.
Che il critico (lo chiamiamo così per praticità e sintesi) abbia smesso di fare il bello e il cattivo tempo lo sappiamo già da un po’; il punto sta forse nel capire se il critico sia nella posizione di offrire un ombrello o una sdraio da sole da contrapporre a quel tempo. Se cioè, una volta capito che possiamo accendere il fuoco con la manopola, abbiamo ancora qualcosa di commestibile da cucinare. E qui entra il gioco il vissuto: la realtà della critica e del pubblico, che il teatro lo guardano, è molteplice, così come lo è quella di chi il teatro lo fa. Figlia di una territorialità che va difesa, tenta di fuggire una definizione, chiama un raro modello di autonomia condivisa.

Proviamo a immaginare il migliore dei mondi possibili, in cui artisti e pubblico sono personalità che sperimentano. Se il linguaggio di chi fa teatro si rinnova di continuo, tenta di mettersi sempre alla prova, di raccontare il proprio tempo intessendo sintesi artistiche non necessariamente nuove, ma piuttosto personali, allo stesso modo è affascinante immaginare un pubblico altrettanto dinamico, un “punto di vista”. Allora sarebbe splendido pensare a creatività che continuino a cercare il proprio centro, rifuggendo una definizione univoca e andando a presentare questa stessa ricerca come un fatto dinamico, come un conflitto, nei confronti del quale il punto di vista possa porsi come agente che reagisce, come spunto, come gancio. Se fosse davvero così, anche la critica avrebbe un proprio ruolo, un ruolo ancora una volta dinamico, vivo, indefinito ma solo perché sempre pronto alla discussione, fermo sul pezzo. Quindi mobile.

Ma questo è il migliore dei mondi possibili. Stiamo immaginando. Eppure, se si parla con gli artisti com'è accaduto durante Novo Critico, in mezzo alle giustissime lamentele per una politica (e una pratica) culturale inesistente, s’infila una sorta di rivendicazione: laddove si tenta di definire qualcosa si incontra il muro di gomma della “ricerca”. Ed è giusto così, soprattutto dove si intravede un percorso, dove l’istanza compare, dove la passione porta a mettersi alla prova. E allora proviamo a rivendicare lo stesso diritto.
Novo Critico è nato e cresciuto con l’intento di creare dei raccordi, non necessariamente degli accordi. È stata una torre di controllo in grado di chiarire le rotte di molti attraversamenti. Krapp è stato testimone di questi momenti di incontro, di dialogo. Ha registrato le questioni sorte come onde di un sismografo. Il risultato è che il dibattito sul ruolo della critica è ancora vivo, ora più che mai. Negli interventi dei nomi sopracitati (leggi la lettera aperta di Katia Ippaso) si parla di teatro come “pensiero in movimento”, di scrivere come “conoscere”, della volontà di confrontarsi ancora tra artisti, critica e pubblico. Addirittura, all’interno della critica, di arrivare a un vero e proprio confronto generazionale.

Come accade in ogni momento figlio di una crisi totale, radicale, materiale, ora certe possibilità si stanno facendo concrete. Sono le possibilità non tanto della critica, ma del pensiero critico, qualcosa che appartiene a tutti i lati di un vivere vigile. E se qualcosa si sta muovendo è grazie sì all’impegno di “giovani critici” e di “meno giovani critici”, ma molto di più grazie al semplice fatto che le cose evolvono. Soprattutto in situazioni di emergenza globale, politica, etica (che altri hanno analizzato a dovere). Perché le energie si rimescolano, tornano a vibrare.

A volte sembra invece che la critica sia più importante dell'arte; o che i critici dettino le regole del gioco, facendo accendere le luci in sala. Ma se i fari sono puntati su qualcuno non dev'essere - crediamo - sulla critica in senso stretto. E spesso qualcuno, foss'anche in buona fede, pare scordarsene.
Trattare un’energia come qualcosa di straordinario non è sempre l’atteggiamento migliore, se si vuole che quell’energia produca qualcosa. Pensiamo ai contenuti, alle modalità, alle sinergie. Il grande cambiamento di questi mesi “sta essendo”, direbbero gli inglesi, nel contatto, nell’incrocio, nel confronto. “Non dobbiamo essere per forza d’accordo sulle idee, ma almeno stringiamoci attorno a delle idee che siano tali”.
Il nostro lavoro è stato di registrare quei battiti di senso e discussione, amplificandoli affinché tramite mezzi adeguati possano raggiungere anche chi non era presente negli incontri a Kataklisma, a Tor Vergata o al Kollatino Underground. Allora è qui il nostro senso. Stiamo raccontando. Conservando la passione ma osservando una giusta distanza, quella della prospettiva, per comprendere sempre meglio e soprattutto senza dare mai per scontato nessun ruolo.
Quella della critica è una materia che cambia, che si trasforma. A noi interessano la ricerca e la differenza che possiamo fare in un percorso di conoscenza, approfondimento, presenza. E dunque evoluzione. Questa è cultura.

Sergio Lo Gatto
11 dicembre 2010

 

 

Epica, Etica e Pop – manovre di uscita dalla post-modernità tra letteratura e teatro.


A fine novembre, al Kollatino di Roma, in occasione dell’ultimo appuntamento di Novo Critico, l’Accademia degli Artefatti ha presentato in lettura alcune scene tratte da «One Day», lo spettacolo di 24 ore che doveva debuttare nel 2008 al festival Romaeuropa ma che, a causa di problemi produttivi, non ha mai visto la luce. Nonostante non sia stato portato a termine, per il regista Fabrizio Arcuri «One Day» resta il miglior pezzo di teatro realizzato dalla sua compagnia, perché era “nato per testimoniare l’assoluta inadeguatezza del sistema” e coerentemente è stato “abortito per mano di questa inadeguatezza”. In effetti «One Day» aleggia come un fantasma sulla attuale situazione di dismissione di spazi e finanziamenti che sta minando il sistema teatrale italiano, perché ne è stato forse il primo concreto campanello d’allarme, e gode per tanto oggi di una luce quasi “mitica”.
È inutile cimentarsi in una recensione di uno spettacolo mai andato in scena, di cui sono state presentate solo alcune parti e per di più in lettura. Sarebbe una restituzione necessariamente parziale, visto che «One Day» è un’opera-mondo estremamente complessa, che avrebbe dovuto ospitare al suo interno altri spettacoli, e che proponeva diversi piani di realtà e filoni di storia in un intreccio elaboratissimo: dal rapimento di un bambino rumeno alla parabola del pupazzo Dolly Bell che raffigura un coniglio ceceno (ma Dolly Bell è anche tante altre cose…), dalle performance live dei Kiss – il gruppo preferito del bambino, ma anche l’icona esemplare della riproducibilità pop, qui accostata addirittura all’opera di Pechino – alle avventure del pornoattore Tito, passando per le maglie noir di un affare di traffico d’organi. E questo è solo un assaggio della drammaturgia elaborata da Magdalena Barile a partire dalle idee di Fabrizio Arcuri e dalle improvvisazioni dei suoi attori – oggi raccolta in un libro uscito di recente per Titivillus.
Tuttavia l’operazione di «One Day» può fornire uno spunto di riflessione interessante per leggere una tendenza che si sta delineando nel teatro internazionale. «One Day», come «Spara/Trova il tesoro/Ripeti» – i diciassette pezzi scritti dal drammaturgo inglese Mark Ravenhill e messi in scena sempre da Arcuri – o come la teatronovela di Rafael Spregelburd «Bizarra», la cui versione italiana realizzata da Manuela Cherubini è attualmente in scena all’Angelo Mai di Roma, sono tutti esempi di utilizzo di una forma insolita per il teatro: il ciclo1. Insolita perché la perenne crisi in cui versa il teatro ci ha abituati a spettacoli sempre più piccoli, con pochi attori quando non uno solo, con scenografie ridotte o inesistenti, insomma un teatro “tascabile” da poter spostare facilmente e a poco prezzo (con l’unica deroga del teatro che lavora sulla visione e intercetta circuiti che si intersecano con l’arte visiva).
Il ciclo non è semplicemente uno spettacolo più lungo – altrimenti dovremmo includere in questo ragionamento anche operazioni come quella di Peter Stein con «I demoni» – o una forma che straborda dai confini abituali del teatro. Certo, sia in «One Day» che in «Bizarra», ad esempio, la scelta di realizzare uno spettacolo fuori scala, fuori misura, è anche una sfida diretta a un sistema teatrale (nel caso italiano) e a una congiuntura economica (nel caso argentino) che sembrano voler comprimere il teatro in modo irrimediabile. Ma la forma del ciclo ha anche delle implicazioni drammaturgiche particolarmente interessanti, che danno il segno di un tentativo di smarcarsi dall’estetica del frammento che ha caratterizzato la stagione del post-modernismo senza però tornare pedissequamente a una messa in scena di tipo classico.
Il ciclo ha a che vedere con l’epica, ne è anzi la sua forma classica, e l’epica è certamente presente in tutte queste opere, che nella loro complessità presentano diversi tratti tipici del racconto epico. A sorpresa, nell’epoca della comunicazione rapida e di superficie, sembra sia proprio il racconto epico, con la sua stratificazione e il suo tempo di fruizione decisamente superiore allo standard abituale, a suggerire una possibile via di uscita dal post-moderno, dalla sua frammentazione, dalla sua negazione del racconto in favore di un’opera aperta dalle letture molteplici e tutte egualmente valide. D’altronde se uno dei pilastri delle teorie sulla post-modernità era proprio la fine della storia – e il concetto elaborato da Francis Fukuyama altro non era se non l’attestazione dell’impossibilità di riprendere un racconto epico della storia contemporanea dopo il crollo del comunismo e la messa in discussione dell’ideale di matrice marxista del progresso come motore della storia –, per converso è proprio con l’epica che la storia inizia. Perché è l’epica l’unico genere in grado di partorire i miti fondativi su cui si ergono le grandi narrazioni.
Qualcosa del genere l’ha intuito negli stessi anni la letteratura, che proprio nell’ultimo decennio ha cercato di uscire dall’empasse in cui si era cacciata tempo prima, messa alle corde da un minimalismo più di idee che stilistico. Nel nostro paese si possono ricordare operazioni come i «Canti del Caos» di Antonio Moresco, mentre la New Italian Epic – termine proposto nel 2008 da Wu Ming 1 per circoscrivere un’insieme di autori e opere letterarie uscite a nell’arco che va dalla seconda metà degli anni Novanta al primo decennio del nuovo secolo2 – è oggi una categoria che anima con forza il dibattito letterario. Anche se questa definizione prende in considerazione romanzi di ambientazione storica o metastorica, è possibile proporre un parallelismo di fondo, magari spurio, con quanto avviene nel teatro dove invece l’ambientazione è rigorosamente legata al presente e addirittura all’attualità. In entrambi i casi, comunque sia, si cerca nell’epica il meccanismo in grado di riattivare gli stanchi meccanismi della narrazione, la scintilla in grado di “avvincere” il lettore/spettatore, come si dice.
Facciamo subito due precisazioni. La prima è che l’epica, nonostante sia una parola che affascina, una parola “euforica” che evoca vastità di orizzonti, grandezza di scrittura e d’impresa – per usare una definizione della critica letteraria Carla Benedetti3 – non è necessariamente intrisa di etica. Ai suoi meccanismi sono ricorsi anche – e ben prima di teatro e letteratura – gli sceneggiatori televisivi statunitensi, tanto che le loro serie tv sono il principale prodotto di intrattenimento di questi anni. Ovviamente con ciò non voglio affermare che le serie tv siano necessariamente portatrici di contenuti non etici, ci mancherebbe; ma è giusto sottolineare che la capacità di rifarsi all’epica e ai suoi meccanismi appartiene anche ai prodotti commerciali di intrattenimento (per altro il più delle volte sono prodotti di ottima fattura e che si avvalgono di sceneggiatori di alto livello). D’altronde stiamo parlando di una “forma”, per quanto complessa essa sia e per quanto in campo estetico la forma sia anche portatrice di sostanza; e le forme hanno un valore limitato nel tempo e nell’utilizzo che se ne fa: se servono a scardinare convenzioni e illuminare percorsi di ragionamento sul mondo che ci circonda – a spostare continuamente l’oggetto, dice Fabrizio Arcuri4, affinché forma e oggetto non sclerotizzino il loro rapporto svuotandolo di senso – hanno un valore contiguo a quel valore sociale che riconosciamo all’arte piuttosto che all’intrattenimento. «A volte le rivoluzioni passano per l’invenzione di nuove forme», dice Rafael Spregelburd in un’intervista pubblicata da Lo Straniero5. Ma, appunto, in questo caso il valore rivoluzionario sta tanto nella forma quanto nell’atto dell’inventare.
Seconda precisazione: la vera colpa della post-modernità, dal punto di vista delle forme estetiche che ha espresso, sta nel fatto che a causa della sua formulazione apocalittica queste si pretendono implicitamente come un orizzonte estetico definitivo e impossibile da superare (anche se allo stesso tempo inneggiano al perseguimento del “nuovo”, categoria mitizzata e spesso equivocata). Inoltre, se e quando queste forme estetiche vengono praticate in nome di una critica-denuncia della realtà coatta della post-modernità stessa, esse risultano spesso troppo contigue all’oggetto della propria critica, rendendo di fatto impossibile distinguere tra “adesione” e “denuncia” (per altro in perfetta coerenza con la post-modernità dove tutto e il contrario di tutto collassa nel buco nero di uno stesso orizzonte senza possibilità di futuri eventi: forse, da questo punto di vista, quella sulla post-modernità è l’unica teoria filosofica e sociologica ad essere contemporaneamente apocalittica e integrata). Insomma, come si fa a dire se siamo “contro” o “a favore”? Come possiamo sapere, dentro questo quadro, se l’arte ha talmente abbassato la sua voce da farla confluire in quel “raffinato silenzio” che è la confusione mediatica – secondo una felice espressione di Ascanio Celestini – o se invece sta gridando a gran voce? Non è dato saperlo, perché nel mare magnum della post-modernità non c’è più un fuori o un dentro, e porre simili questioni equivale a disquisire del sesso degli angeli…
Ovviamente non è vero che non sia possibile distinguere il grano dal loglio, né per altro il fatto di prendere posizione può essere ridotto a un atteggiamento da stadio basato sul pro e contro. Le sfumature esistono, e spesso è da esse che le contraddizioni emergono non come elemento di confusione, ma come forma di illuminazione. Per questo, accanto alle due precisazioni fatte nel paragrafo precedente, e conseguentemente ad esse, va notato che queste forme di epica – quelle teatrali come quelle letterarie – non hanno alcun problema a dialogare con un altro ingrediente cardine delle pastoie della post-modernità e della loro pretesa di confinare il reale in un eterno presente, un presente espanso immemore del passato e che non prevede il futuro: il Pop.
Il filosofo Maurizio Ferraris, in un recente articolo6 apparso su La Repubblica, scrive che il post-moderno può essere sintetizzato in tre parole di undici lettere in tutto: Iper Pop Post. «l’Iper come valutazione positiva dell’eccesso e come rifiuto della misura, il Pop come miscela di alto e basso nel sistema dei media, e soprattutto il Post, l’idea di essere postumi, di venire dopo», scrive Ferraris.
Certamente il ricorso all’epica cerca di lasciarsi alle spalle il Post: la rivendicazione è portata avanti con forza da parte di questi artisti, tanto che Fabrizio Arcuri di questo ragionamento ne fa un fil rouge che attraversa esplicitamente la complessa stratificazione di «One Day»; mentre l’Institute of Germanic and Romance Studies dell’Università di Londra ha deciso di intitolare la pubblicazione degli atti di due conferenze sulla New Italian Epic in modo emblematico: “Overcoming Postmodernism”. Ma l’Iper e il Pop? Sono elementi costitutivi tanto della teatro-novela di Rafael Spregelburd o della maratona di «One Day», quanto di romanzi metastorici come «Q» di Luther Blissett (il precedente nome collettivo del gruppo di scrittori oggi noto come Wu Ming) o di scritture debordanti come «I canti del caos». Tutti questi oggetti artistici sono “eccessivi”, e tutti si immergono volentieri nell’oceano del Pop e ne fanno un elemento di fascinazione. Questo vuol dire che la loro voce si unisce al raffinato silenzio della confusione mediatica?
Impossibile dare una risposta univoca, in grado di fornire una qualche equazione di portata generale. Alla fin fine – ed è un bene! – sono sempre le opere a parlare per se stesse, e non le teorie. Però si può azzardare un’ipotesi di massima, e cioè che quando il ricorso all’Iper e al Pop è di matrice esclusivamente seduttiva, esso si situa sulla frequenza del rumore di fondo, del raffinato silenzio della confusione mediatica. Se invece tale ricorso costituisce sì una fascinazione, ma che ha il compito non di sedurre, bensì di aprire squarci di riflessione sul presente, allora esso si colloca in una frequenza diversa, dove le parole sono distinguibili, e i loro significati, anche se presentano sfaccettature molteplici, sono certamente lontani dall’essere ambigui.
In questo quadro mi sembra che, a prima vista, il teatro dei cicli e dell’epica contemporanea presenti qualche anticorpo in più rispetto a un fenomeno come la New Italan Epic. Nella letteratura il ricorso all’epica è sì un tentativo riuscito di recuperare un più ampio respiro a una narrativa che sembrava destinata ad avere il fiato corto; ma la narrazione mantiene un grado di finzionalità decisamente elevato, dove da questo punto di vista l’epica non è altro che il nuovo patto comunicativo tra chi scrive e chi legge, nient’altro che la “forma in voga”. Certo, poi questa forma può essere utile per tornare a mettere sul piatto della letteratura tematiche importanti e di più ampio respiro – ad esempio il “destino dei popoli”, secondo Wu Ming – ma è spesso anche un meccanismo strumentale che utilizza la forma in modo seduttivo, ed è quindi a forte rischio di retorica. Nelle arti che utilizzano la parola questo rischio si materializza di solito quando si è convinti, in modo più o meno manifesto, della superiorità del contenuto rispetto alla forma; mentre è il rapporto osmotico tra forma e sostanza a far scaturire l’alchimia necessaria affinché un oggetto d’arte parli davvero a chi lo fruisce. Non sto ovviamente affermando che l’intero corpus di romanzi citati da Wu Ming 1 nel suo saggio siano retorici, tutt’altro; ma che la loro finzionalità, il loro “crederci”, il loro ricorso all’epica per sentirsi epici, resti un limite – per altro un limite strutturale, visto che la narrativa è prevalentemente “fiction” – all’equazione “epica uguale recupero di un possibile discorso sul mondo”. Non dico che questa equazione non sia possibile, semplicemente che non è automatica. Perché manca un aspetto fondamentale per la letteratura, il terzo vertice del triangolo che poggia sull’asse forma-sostanza e che è forse l’elemento più importante: la lingua. È la lingua dello scrittore, il suo stile, a far sì che il patto comunicativo non resti mera seduzione ma produca uno spostamento dello sguardo del lettore sul mondo; e non a caso è proprio la lingua il grande rimosso della letteratura nell’epoca della post-modernità, è lo stile ad essere finito sul banco degli accusati per il fatto di costituire un ostacolo naturale alla comunicazione. Da questo punto di vista un esperimento straniante come «I canti del caos» di Moresco mi sembra un ricorso all’epica più complesso e riuscito.
Nel teatro la questione corre su un altro binario. Perché la riflessione sulla finzionalità è esplicita e irrinunciabile, è praticamente il rovello di ogni teatrante da quando esiste il teatro. E il tema della realtà e della finzione è intimamente connesso alla natura stessa del medium teatrale. Una buona fetta delle ultime generazioni teatrali italiane – a prescindere dal fatto che utilizzino o meno il genere epico – hanno declinato, in varie forme estetiche, un’urgenza comune: l’urgenza di scardinare in vari modi i meccanismi della comunicazione, di mostrare in scena il giocattolo rotto, spaccato, per poterne mostrare il funzionamento7. Il capitale che il teatro si porta dietro, in questa riflessione, è la messa in discussione dell’idea di “rappresentazione” (in quanto elemento di finzione) che ha agitato le acque del dibattito teatrale praticamente durante tutto il Novecento. Il risultato – come a sottolineato Andrea Porcheddu durante l’incontro su «One Day» – è che oggi ad esempio è possibile assistere a spettacoli, in tutta Europa, che recuperano meccanismi di racconto e “messa in scena” ma che allo stesso tempo presentano quel fenomeno, mutuato dalla performing art, della “scomparsa del personaggio” (ovvero quando gli attori stanno sulla scena in quanto se stessi, e non perché stanno cercando di materializzare uno specifico personaggio). E questa coesistenza – al contrario di quanto avverrebbe in letteratura, dove si finirebbe subito nel campo nell’esperimento metaletterario – non dà all’opera un alone di metateatralità. Al contrario, recupera il patto comunicativo con lo spettatore sulla base del fatto che assieme a lui l’attore smonta la comunicazione abituale e i suoi meccanismi.
Tornando a quel teatro che sta facendo ricorso al ciclo e all’epica, esso pur immergendosi nelle acque agitate del Pop si porta in dote questa complessa e inesauribile riflessione dell’arte teatrale sulla finzionalità. L’essere obsoleto del medium teatrale, rispetto ad una post-modernità fatta di ipermedia digitali, fa sì che il posticcio della costruzione mediale della realtà sia in teatro sempre presente ed esplicito: gli attori (e dietro di loro i registi) devono costantemente interrogarsi su cosa dia loro il diritto di stare in scena, ovvero su cosa consenta loro di essere credibili di fronte a chi li sta a guardare. Non possono richiamarsi a un patto comunicativo che gioca sull’immedesimazione per così dire “immersiva” (come nel cinema, ad esempio, o nella letteratura), perché lo spettatore non è da solo davanti all’opera teatrale: ne è invece egli stesso una parte, perché senza lo spettatore il teatro non può fisicamente avvenire. Il grado zero del teatro è sempre e comunque l’incontro (anche fisico) tra esseri umani, tra spettatore e attore, e se c’è immedesimazione essa deve necessariamente passare per le dinamiche dell’incontro e del dialogo, del mettersi in relazione. Si tratta di un dato pratico che ha però un valore semantico preciso. Un aspetto del teatro che fa il palio a quanto afferma il regista Massimiliano Civica a proposito dell’autoralità in teatro: «Il regista e gli attori diventano un multinarratore che racconta al pubblico e si determina qualcosa che travalica la comprensione del singolo per dar luogo a un terzo. Chi l’autore di uno spettacolo teatrale? Secondo me nessuno: a teatro è sempre un terzo magico che parla ed è costituito dalla relazione8». Se a questo ragionamento aggiungiamo il terzo vertice del triangolo che dà vita a uno spettacolo, e cioè il pubblico e la sua percezione, possiamo immaginare il teatro come qualcosa che si manifesta in un luogo ipotetico che è l’intersezione dove tutti questi soggetti si incontrano. Se vogliamo, da questo punto di vista, il teatro è un’arte decisamente più concettuale di tante altre arti.
La scelta del ricorso all’epica e al ciclo, allora, non essendo alla base del patto comunicativo del teatrante con lo spettatore, non rischia di invischiarsi in un meccanismo retorico del quale si tenta uno smontaggio costante – almeno in un certo tipo di teatro. L’epica si delinea quindi come il tentativo di invenzione di una linea narrativa complessa e stratifica, che tuttavia non giustifica di per sé l’operazione teatrale, semplicemente perché è “di grande respiro” o “ben fatta”, come una serie tv, ma perché inventa una forma nuova dal potenziale “rivoluzionario” nel senso espresso da Spregelburd.
Ciò vuol dire che nel teatro il ricorso all’epica è un fatto positivo e non lo è nella letteratura? Ovviamente non si può porre la questione in modo manicheo. Come ho già affermato le opere, siano esse di teatro che di letteratura, si possono giudicare solo per ciò che valgono e non per l’adesione ad una teoria piuttosto che ad un’altra – e per fortuna. Credo però che il ricorso all’epica non possa delinearsi come fatto virtuoso in sé – “etico” nell’accezione proposta prima – se non affronta il suo stretto legame con un alto dei vertici del triangolo della post-modernità: il Pop.
Che poi l’epica possa essere considerata il nostro pass per la fuga dalla post-modernità è tutto da verificare. Non può allontanarsi dall’Iper senza negare se stessa, e difficilmente rinuncerà al Pop perché è la carta che gioca per avvincere lo spettatore/lettore. Nella sua negazione del Post, tuttavia, disegna un orizzonte più vasto verso cui guadare che già permette di respirare meglio, di annusare un’aria meno viziata. E non è cosa da poco.

Graziano Graziani
10 dicembre 2010

1 Per altro Rafael Spregelburd è autore anche di un altro ciclo, la «Eptalogia di Hieronymous Bosch», uscita in Italia in due volumi per Ubulibri, a cura di Manuela Cherubini.
2 Wu Ming «New Italian Epic», Einaudi Stile Libero 2009.
3 «Free Italian Epic» di Carla Benedetti, articolo apparso su www.ilprimoamore.com l’11 marzo 2009 e, in forma ridotto e col titolo «Stroncatura epica», su L’Espresso n°10 del 12 marzo 2009.
4 Il riferimento non è a un testo scritto, ma a l’intervento che ha fatto il regista dell’Accademia degli Artefatti a Novo Critico in occasione della presentazione di «One Day».
5 «Teatro e Telenovela», intervista di Graziano Graziani a Rafael Spregelburd, da Lo Straniero n°126-127 – dicembre 2010 / gennaio 2011.
6 «Siamo ancora postmoderni?» di Maurizio Ferraris, articolo apparso su La Repubblica del 19 giugno 2010.
7 Vedi a questo proposito il saggio «La realtà allo stato gassoso. Uno sguardo ai teatri degli anni Duemila» di Graziano Graziani, in corso di pubblicazione in forma di articolo su www.altrevelocita.it a dicembre 2010.
8 Massimiliano Civica intervistato da Attilio Scarpellini, in «Sogno nella notte dell’estate» di William Shakespeare nella traduzione di Massimiliano Civica, a cura di Attilio Scarpellini, Editoria&Spettacolo 2010.


 

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Novo Critico 2010. The last day con gli Artefatti


Fabrizio ArcuriFabrizio Arcuri
Novo Critico 2010 chiude con le ultime due serate di “Tre giorni per One Day”, maratona dedicata al mega-progetto di 24 ore dell’Accademia degli Artefatti naufragato nel 2008 per problemi di produzione. Per quanto si sia trattato di un estratto eccezionalmente breve del testo completo, abbiamo avuto modo di toccare con mano la potenza di un’operazione che, nel corso di tre incontri consecutivi, si è rivelata come un punto importante per tracciare una linea della drammaturgia contemporanea.
Da Brecht a Ravenhill, sono molte le fonti di ispirazione di “One Day” e del lavoro degli Artefatti, che continua ad evolvere. C’è una profonda riflessione su rappresentazione e rappresentanza, la volontà violenta di caricarsi in spalla il fardello postmoderno con tutto il suo peso storico e far sì che perda via via i pezzi per strada, alla ricerca di una nuova definizione. O non-definizione.
Fabrizio Arcuri, accompagnato ancora da Andrea Porcheddu e nell’ultima serata da Attilio Scarpellini, ha disegnato il quadro completo di un teatro che si evolve con quieta nevrosi, lavorando duramente sulle spalle di una pratica. Alla teoria viene lasciato un unico compito: fare in modo che la performance non inciampi sulla sua stessa autoreferenzialità. Se per gli Artefatti un paradigma esiste è quello secondo cui lo spettacolo è sempre “il primo e l’ultimo”, una convenzione che si radica senza fossilizzarsi, una metodologia espressiva che si rinnova affinandosi in precisione. Un teatro politico, necessario, totale. Un artefatto critico che scavalca una parete dopo l’altra, fino a raggiungere il bersaglio ultimo: l’attenzione.

Sergio Lo Gatto  
1 dicembre 2010

Novo Critico 2010. Artefatti per "one day"


One DayOne Day
L’ultimo appuntamento di Novo Critico ha tutti i crismi del grande evento, persino un titolo a parte: “Tre giorni per One Day”. Un weekend sperimentale, un’avventura della visione, un viaggio nell’etica (e non nell’estetica!) di quel grande gruppo teatrale che è l’Accademia degli Artefatti, qui faccia a faccia con Andrea Porcheddu.
Quando gran parte dei partner che lo avevano lanciato come progetto nascosero la mano ritirando i finanziamenti, “One day” era già molto di più di un’idea ambiziosa. In questa maratona Fabrizio Arcuri, che degli Artefatti è fondatore e regista, avrà modo di spiegare nel dettaglio lo stadio esatto a cui la produzione decise di fermarsi, due anni fa, arrendendosi di fronte a un vergognoso qui pro quo politico. Dirà che fu una scelta, quella della compagnia, di sottrarsi al debutto, una presa di posizione dalle sembianze, ancor più che della protesta, dell’incredulità.
Sì perché il colossale progetto “One day”, che avrebbe dovuto vedere uno spettacolo organico della durata di ben 24 ore naufragò nell’autunno 2008 quando era a un passo dalla fine della gestazione: il testo interamente scritto, i nodi di regia da sciogliere solo con un’ultima filata, addirittura le scenografie già praticamente pronte. Sono passati due anni. Novo Critico sceglie di chiudere in bellezza dedicando a “One day” una tre giorni che ne racconti l’importanza, i punti critici, il suo essere un passo avanti nella carriera del gruppo ma anche, lo scopriremo vedendo e ascoltando quest’opera impressionante, nella definizione stessa del concetto di fruizione, di comunicazione dal vivo: un teatro finalmente politico. Nel senso etimologico del termine.
In ciascuna delle tre serate sono stati presentati – in forma di mise-en-espace – degli estratti del testo integrale (scritto dalla drammaturga Magdalena Barile in collaborazione creativa diretta con la compagnia ed edito da Titivillus), fino a totalizzare circa quattro ore e mezza di spettacolo. Meno di un quinto di quello che sarebbe stata l’esperienza totale.
I video che seguono non possono che essere un semplice documento senza pretese altre se non quella fondamentale dell’essere testimonianza. E riflessione.

Sergio Lo Gatto  
29 novembre 2010

 

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Novo Critico 2010. Riflessioni in vista del traguardo


Daniele Timpano e Elvira FrosiniDaniele Timpano e Elvira Frosini (photo: Andrea Chesi, Ulisse & Cannone)























In attesa dell'appuntamento conclusivo di Novo Critico 2010 - che vedrà l'Accademia degli Artefatti incontrare Andrea Porcheddu in una tre giorni di confronto e discussione - abbiamo incontrato gli organizzatori dell'evento, Elvira Frosini (Kataklisma) e Daniele Timpano (amnesiA vivacE), per raccogliere qualche impressione a bilancio di questa edizione.

Dopo un anno di fermo, quello che era Uovo Critico è tornato a vivere con il nome di Novo Critico. Che cosa c'è stato di “novo” in questa edizione?

ELVIRA - C'è certamente molto di nuovo nell'edizione 2010. La novità più importante è quella che vede la collaborazione con le università di Roma. La collaborazione, fortemente voluta dai docenti di Tor Vergata Donatella Orecchia e Antonio Audino, ci è sembrata il modo migliore di aprire un dialogo con il mondo accademico e quello degli studenti, avvicinandoli al contesto delle compagnie di ricerca e al mondo della critica. Ci siamo resi conto che questo dialogo non è affatto scontato e in certi casi è ancora difficile da stabilire. In Roberto Ciancarelli, docente de La Sapienza, abbiamo trovato grande entusiasmo e curiosità per il progetto. Importante da segnalare è l'attivazione dei due Osservatori critici degli studenti, uno per ciascuna università, che hanno seguito gli incontri, confrontandosi con gli artisti e gli sguardi dei critici e, seguiti dai docenti coordinatori Ciancarelli e Orecchia, si sono cimentati nella osservazione critica dei lavori. Altra novità importante è stata la collaborazione con Krapp's Last Post, che ha permesso di seguire gli eventi in forma video e con articoli critici e interviste, realizzando una documentazione preziosa per il progetto.

DANIELE - L'altra novità fondamentale è che quest'anno siamo stati finanziati dal Comune di Roma – Assessorato alle Politiche educative, scolastiche, della famiglia e della gioventù. Senza di loro non ce l'avremmo mai fatta: l'assenza di un sostegno economico da parte delle istituzioni è stata la causa principale del naufragio delle nostre fantasie per l'edizione 2009. Speriamo stavolta di riuscire ad avere maggiore continuità di dialogo. Una edizione 2011 sarebbe cosa buona e bella. Sarebbe addirittura buon segno, in questa crisi generale.
E poi ovviamente, oltre alle partership con la Fondazione Romaeuropa e con Rai Radio Tre e alla collaborazione con il sito di E-theatre.it (che sta mettendo on line le riprese integrali delle serate), quest'anno c'è una novità che mi riguarda personalmente, senza la quale non potrei esser qui a rispondere alle tue domande: la sinergia organizzativa tra amnesiA vivacE e Kataklisma.

Che cos'è la “nuova scena performativa”?

ELVIRA - Abbiamo voluto riassumere con questo termine il vario panorama della scena contemporanea, che raccoglie una varietà di linguaggi estremamente ampia, dal teatro alla danza, al linguaggio più strettamente performativo, passando per tutte le variazioni. Mi sembra che sia un dato rilevante l'estrema ricchezza dei linguaggi scenici, e pur non potendo essere certo esaustivi, abbiamo cercato di offrire una piccola panoramica di questa ricchezza.

Secondo quale criterio avete scelto gli abbinamenti tra artisti e critici? E sono stati efficaci come speravate? 

ELVIRA - Molto spesso ci siamo basati su intuizioni, parlandone con i critici in generale. Ma in altri casi abbiamo appositamente abbinato un artista e un critico che non si conoscevano molto o affatto. Abbiamo trovato comunque una grande curiosità e disponibilità da parte della critica, questo dato va sottolineato.

Avevate già lavorato usando un media partner. Questa volta com'è andata con KLP? (I due intervistati assicurano la sincerità della loro risposta, ndr)


ELVIRA - Nella prima edizione il media partner, Podoff, era un partner “audio”, nel senso che realizzava podcast audio delle interviste ad artisti e critici. La documentazione video era stata realizzata da Riccardo Frezza e poi montata e pubblicata sul blog. In questa edizione avere come partner una testata online specializzata mi sembra sia stato un valore aggiunto molto importante.

DANIELE - Sì, nella scorsa edizione Podoff forniva un ottimo momento di conoscenza tra critico e artista e insieme costituiva una sorta di presentazione della serata, dunque ricopriva un po' la funzione delle brevi interviste realizzate quest'anno da Klp. La vera differenza è stata nella continuità del feedback a posteriori, dopo ciascuna serata. A fare la differenza è stato anche il fatto che ad ogni incontro sia stato dedicato un articolo di approfondimento e che qualcuno si sia preso la briga di cercare di trarre le fila di un ragionamento unico intorno a quello che stava succedendo.

Nel corso di tutti gli appuntamenti, e in qualcuno in particolare, sono sorte alcune discussioni che prendevano direttamente di mira il critico, il suo ruolo e la sua funzione. In qualità di organizzatori di un evento che tenta proprio di affidare la propria riuscita anche al contributo critico, qual è la vostra posizione? 

ELVIRA - L'intento di Novo Critico è quello di aprire e tener vivo il dialogo tra artisti, critica e pubblico. E in particolare il nostro scopo è proprio tentare di focalizzare e accendere il dibattito sul ruolo della critica, quindi le discussioni che sono sorte ci sembrano pertinenti. Non partiamo da una situazione data, e certo non avevamo nessun punto di vista da affermare, se non una necessità di dialogare. Se il dialogo è acceso credo che questo sia un segnale della vitalità e dell'urgenza che ci coinvolge tutti. Noi ci auguriamo che le discussioni ci siano, e anzi continuino. Novo Critico non vuol essere un progetto che si realizza e poi si chiude: è anzi il tentativo di attivare un processo. Sul nostro blog ci sono i materiali, i commenti, le riflessioni, i video e lì rimarranno in modo tale da poter esser visti e e letti anche in seguito. Novo Critico, con il suo blog, invita tutti a commentare, dire, contribuire alle discussioni, e chiaramente pubblichiamo e pubblicheremo contributi e spunti che arrivano da tutti. Invitiamo dunque a inviarci pareri, dissensi, osservazioni e quanto sia pertinente e utile.

Pensate che il rapporto tra critica, artisti e pubblico corra il rischio di “parlarsi troppo addosso”?

DANIELE - Penso che questo rischio ci sia senz'altro, specie tra critica e artisti, due categorie in fondo piuttosto prepotenti e chiacchierone, che hanno ruoli diversi ma fanno parte dello stesso mondo liminare e marginale che, di suo, tende a “parlarsi troppo addosso”. In alcune serate, o in alcuni momenti di diverse serate, quando magari la presenza in sala di altri critici o altri artisti colleghi era più numerosa, mi pare che le discussioni abbiano rischiato di essere monopolizzate dai pochi addetti ai lavori. Tutto questo per fortuna è successo in misura molto ridotta e devo dire che sinora siamo stati bravi a coordinare al meglio le serate. L'equilibrio tra comunicazione e autoreferenzialità, in situazioni come queste, è delicatissimo, sempre appeso a un filo, ma penso valga la pena di rischiare. Di sicuro è bello spaccare quest'uovo (uno spettacolo in preparazione, un metodo di lavoro, una poetica, un pensiero dietro alle cose che si fanno) e guardarci dentro tutti insieme, artista, pubblico, critica, prima che sia troppo tardi, prima che il proprio lavoro diventi quell'oggetto rotondo (o ovoidale) che è uno spettacolo compiuto, prima che la propria “arte artigiana” diventi una merce da buttare in pasto all'inappetente mercato/non mercato teatrale. Ma forse adesso sto parlando più da “artista” che da organizzatore.

ELVIRA - Io penso che sia meglio correre il rischio piuttosto che non correrlo affatto. La questione che mi sembra sia sorta dagli incontri e dalle discussioni, ed è una questione importante, è quanto tutto questo riesca a coinvolgere il pubblico, sia da parte degli artisti, sia da parte della critica. In ogni caso penso che parlare e dialogare non è un “parlarsi addosso”,  se non altro perché in fondo c'è bisogno di dirsi le cose, di chiarirsi meglio.


Diverse compagnie di successo, grazie al talento e all'appoggio delle istituzioni, scavalcano i confini e portano i propri lavori all'estero. E viceversa. Secondo voi questo favorisce una mescolanza di culture teatrali o si risolve in una messa in evidenza delle grandi differenze che le separano?

ELVIRA
- Se andare all'estero significa aprire lo sguardo, la mente, sì, favorisce certamente la mescolanza delle culture teatrali. In realtà mi sembra che il panorama sia un po' diverso: poche sono le compagnie che riescono ad andare all'estero attraverso i canali istituzionali. Le compagnie vivono in certo modo in isolamento, almeno dentro i confini nazionali. È difficile andare all'estero con le proprie forze e poche sono le occasioni. Di contro credo ci sia un panorama estremamente ricco oggi in Italia, una grande forza creativa.

DANIELE - Grande o piccola che sia, quella teatrale è una forza un po' depressa. Anche all'interno dei confini nazionali. Per poche compagnie cui viene attribuito – dal mercato? dalla critica? – l'ambiguo concetto di “eccellenza” e godono di una, a volte solo apparente o transitoria, facilità di circuitazione e visibilità in Italia e all'estero, ci sono centinaia e centinaia di compagnie che si arrampicano ogni giorno sugli specchi, da sempre e per sempre. Non saranno tutte “eccellenti”, ma senz'altro molte sono di valore e meriterebbero di più che cachet non sempre adeguati, teatri mal attrezzati o poco riscaldati e pochissime date l'anno. Ci sono intere regioni d'Italia che paiono non esistere. Penso alla Calabria, dove – parlando di compagnie del cosiddetto “teatro di ricerca”, che è quello di cui facciamo parte come artisti e come spettatori – oltre a  Scena Verticale, con le sue produzioni e il suo bel Festival Primavera dei teatri, ci sono altre realtà e iniziative spesso buone, a volte persino “eccellenti”, che troppo spesso non hanno il meritato rilievo nazionale, e che scontano un isolamento che non meritano. Siamo appena tornati, ad esempio, da Lamezia Terme. Ma quanto bravi, quanto seri, quanto onesti e meritori sono gli organizzatori del Festival Ricrii, che tra l'altro è già all'ottava edizione?

Riprendendo una domanda – forse un po' pretestuosa – emersa in uno degli incontri, “mentre molte cose ci stanno crollando addosso, che senso ha fare teatro?”

ELVIRA - Il mondo sta sempre sul punto di crollare. Per quanto mi riguarda fare teatro è la sola cosa sensata o insensata che io possa fare.

DANIELE - Il teatro non è un tetto resistente che possa ripararci il capo, è vero, ma che senso avrebbe stare ad aspettare che tutto il resto ci crolli sulla testa senza far teatro? Ciascuno fa quel che sa fare, o che perlomeno sa far meglio, o in cui riesce a mettere del senso. Mettere un senso nelle cose, riuscire a creare cose che abbiano senso – che siano un tavolino, un matrimonio, un libro, un figlio o uno spettacolo è lo stesso – è l'unica cosa che nella vita abbia un senso.

Sergio Lo Gatto  
24 novembre 2010

 

 

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Novo Critico 2010. Ambra Senatore: frammenti ironici della nostra umanità


Matteo Ceccarelli e Ambra Senatore
Matteo Ceccarelli e Ambra Senatore




















Dopo il “reality senza show” di Daria Deflorian, Novo Critico torna a Kataklisma per dedicarsi alla danza. Ambra Senatore presenta con Caterina Basso un estratto dal divertentissimo “Passo”, in cui due figure gemelle raccontano lo spazio, perennemente in bilico tra vero e falso, tra errore voluto e imperfezione della visione, alla ricerca di un’ironia puntuale e una presenza estremamente personale.
Un “presenza ironica”, dunque, per azzardare una crasi, concetto dal quale prende vita il dibattito, guidato dal giovane ma già affermato critico Rodolfo Sacchettini. Nell’intervista avevamo messo in discussione il ruolo della critica in generale, per proiettarlo poi sulla danza come forma che spesso si inserisce, di traverso, a creare uno spazio teatrale altro tra performance e ragionamento.
Il lavoro di Ambra Senatore è la prova di questo inquadramento: un’ironia che è linguaggio complesso, che usa un’immagine per suggerirne un’altra e che richiama alla memoria un immaginario reale, familiare, perfettamente sintetizzato nel movimento scenico soprattutto quando ne si rappresenta la distorsione. “Passo” vede Ambra alle prese con il tema del doppio, dell’errore, ma soprattutto dell’omologazione. A chi le domanda se questa “giocosità” porti con sé anche un ragionamento, lei risponde che il suo obiettivo è “presentare un’umanità”. E allora tutto torna, ché ciascuno degli spettatori ha ritrovato nei momenti di spettacolo esperienze personali alle prese con l’assurdità della vita quotidiana, condensata – tramite il movimento del corpo ma anche e soprattutto la vivacità dello sguardo – in una sorta di viraggio grottesco e surreale, tra arti finti che cadono in terra e quel distacco nella rappresentazione, che è leggerezza, sì, ma di grado estremamente sottile.  

Sergio Lo Gatto 
14 novembre 2010





IL VIAGGIO TEATRALE DI DANIELE TIMPANO TRA I "CADAVERI ECCELLENTI" DELLA STORIA

IL CORPO BUONO DI ALDO MORO




























La faccenda è seria, e anche un tantino scabrosa. Divertente, per chi la vuol capire. Insopportabile a chi chiede solo di starsene in pace, la sera, con i suoi libri e i suoi programmi televisivi che parlano di gente morta e sepolta in una forma morta: e sepolta. Un ragazzo nato nel 1974, un "certo" Daniele Timpano - avanguardista di terzo millennio noto nella scena romana e ora anche nazionale -, senza chiedere il permesso a nessuno (storici, giornalisti, critici), qualche anno fa si è messo in testa di fare uno spettacolo sul cadavere di Mussolini, e l'ha fatto, tirandosi dietro ogni volta insulti, minacce, smarrimenti cosmici, accuse di filo-fascismo ma anche di filo-comunismo (una sera, al teatro I di Milano, un gruppo di neo fascisti ha sventolato bandiere e scandito inni a favore del Duce, interrompendo lo spettacolo).
In Dux in scatola è il corpo stesso di Mussolini a parlare, raccontando le violenze subite, dall'esposizione a Piazzale Loreto nel '46 («Mi sputano in faccia, mi prendono a calci, mi pisciano in bocca [...], mi sfondano il cranio, mi sfasciano il naso [...] Sono una massa informe di ossa rotte e materia cerebrale fuoriuscente dappertutto. Mussolini oggetto. Mussolini carne. Mussolini ossa da rompere») fino alla sepoltura a Predappio nel '57: nel mezzo c'è la vicenda del trafugamento della salma e le sue peripezie tra bagagliai puzzolenti e tenebrosi conventi francescani.
«Il tentativo di Dux in Scatola è stato anche quello di riappropriarmi di una materia da cui mi sentivo generazionalmente escluso. Potevo affrontare un argomento come questo. solo a patto di sottolineare questa lontananza, questa percezione della Storia come di qualcosa di innaturale, parte più dell'immaginario che della realtà. Credo anzi che il più tragico segno della crisi terminale dell'antifascismo che stiamo attraversando sia questo: che i nazisti romanzati di Indiana Jones rischino di sembrar più reali e familiari dei nazisti veri» spiega il drammaturgo-performer, rivendicando il proprio diritto ad un rapporto carnale e rituale con la Storia: «Non capisco perché a uno spettacolo venga chiesto quello che non viene chiesto al saggio di uno storico, vale dite una lettura ideologica immediata e una presa di posizione chiara, schierata ad esempio sui vetero-valori di una sinistra i cui connotati, in questo momento storico, non sono nemmeno più così riconoscibili. Come se fosse impossibile a teatro tentare la complessità minima di un discorso sensato».
Non contento di aver disseppellito letteralmente il cadavere del fascismo, Timpano è andato poi a scomodare Mazzini e compagnia bella, arrivando a congegnare un Risorgimento pop. Fastidi e eccitamenti dappertutto. Ma il vero colpo di scena è all'orizzonte. Molti si chiedono con che coraggio questo ragazzo che nel '78 aveva solo quattro anni si è messo a interrogare un cadavere di questa levatura, un totem gigantesco e dolente che funesta da trentadue anni la nostra cattiva coscienza: di Aldo Morto, tragedia per ora esiste solo un frammento, un primo studio (presentato qualche sera fa all'interno di "Novo critico" nello Spazio Kataklisma), ma lo spettacolo potrebbe riservare grandi rivolgimenti. Nessuno si era spinto fino a questo punto.
La ferita è ancora aperta e questo sciagurato giocatore d'azzardo si mette a parlare addirittura con il corpo di Aldo Moro. Quando aveva cominciato a raccontare il soggetto del suo imminente lavoro, tutti avevamo scosso la testa, terrorizzati, sconcertati, per niente divertiti.
Come si può evocare in forma avanguardistica quella fotografia di un uomo già mezzo morto con la scritta "Brigate Rosse" che preme sulle sue spalle di vittima scarificale? Con che spirito si sfiora "il" tabù della storia contemporanea di questo paese? E va bene quello del "cattivo", ma come si fa a toccare, il corpo "buono"? E già Timpano, come si fa?
«Aldo Moro è buono solo nell'immaginario collettivo, con la morte che ha fatto di lui un santino. Non penso sia un cadavere buono, penso sia un cadavere normale, un corpo come tutti, degno certo di rispetto e degno, a suo tempo, di restare un corpo vivo. Moro è un finto cadavere buono, ma senz'altro è anche un morto non più demonizzabile, che ha anzi originato una sorta di senso di colpa collettivo che dura da trent'anni che ha originato milioni di affabulazioni in merito ma che non è stato mai affrontato e che forse ormai non potrà mai esserlo, proprio per tutta la cortina fumogena di chiacchiere, ricostruzioni, testimonianze, rivelazioni e confessioni che l'hanno reso praticamente indecifrabile».
Ne Il corpo del nemico ucciso, lo storico Giovanni De Luna sostiene che non sono i morti a parlare, ma i loro corpi («Il confronto con la morte deve necessariamente passare attraverso il corpo dei morti. C'è chi li abbraccia, li coccola, li culla; c'è chi li isola dietro un paravento, stremati dalla malattia, e poi li espone nella penombra delle camere mortuarie; c'è chi li imbelletta, li trucca, li abbellisce...». C'è, in luce, un'idea di “teatralizzazione della morte”, in ogni gesto che un vivo compie nei confronti di un morto. Ma cosa significa esattamente, nel caso di Timpano, prendere il corpo di un cadavere eccellente e farlo parlare su un palcoscenico?
«Dipende dai lavori. Il corpo di Mussolini evocato in Dux in scatola non è il corpo di Moro, né tantomeno il corpo di Mazzini o le ceneri di Garibaldi, che in Risorgimento pop stanno a indicare più che altro un'Italia cimiteriale, più "non morta" (nel senso degli zombi) che viva. "lo ho creduto evocare l'anima dell'Italia e non mi vedo innanzi che il cadavere", scrisse Mazzini all'indomani della Breccia di Porta Pia, ovviamente delusissimo. Ma senz'altro quello dei cadaveri è anche un pretesto scenico che deriva da una mia esigenza di rappresentare la Storia, di disseppellirne il cadavere, un pezzo per volta. La Storia in sé è un cadavere e lo storico uno che rovista tra cadaveri: Il passato è morto, più di quanto sia vivo, perduto per sempre. Per ritrovarlo, per tentare di farlo, non posso che indossarlo: in questo senso, nel mio teatro il corpo morto è stato spesso un vestito».
Non osiamo immaginare quale potrebbe essere il prossimo soggetto-oggetto di Daniele Timpano. Intanto la prendiamo alla lontana, e gli chiediamo come vede l'uso mediatico del corpo nella contemporaneità, e se ci sono dei corpi (vivi) che disturbano più di altri: «Mah, la Bindi che è bruttina, quello che è calvo, il corpo gay di Vendola, il corpo né maschio né femmina di Luxuria, le foto di Cucchi sui manifesti, quelle dello stesso Moro per un manifesto elettorale del Pd di qualche tempo fa, l'esecuzione di Saddam, i soliti culi e tette femminili e maschili, .il corpo mediatico di Berlusconi, che è un corpo che pare vivere solo nelle inquadrature delle telecamere televisive.... Direi che l'esibizione dei corpi è generale, quasi non ci faccio caso».

Katia Ippaso
19 novembre 2010


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Novo Critico 2010. Daria Deflorian e il reality senza show


Daria DeflorianDaria Deflorian




















Capita alle volte che delle ovvietà si tramutino in profonde verità. In fondo i luoghi comuni diventano comuni proprio perché sono “frequentati” da molti. E allora, sarà banale a dirsi, ma è bello scoprire che ogni incontro è diverso dall’altro. Venivamo da quello con Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia, in cui si erano spese parole amare sull’attualità del teatro contemporaneo e ci ritroviamo oggi a mettere in discussione un sistema ancora più grande, quello che include tutti gli altri: la realtà. L’attrice/autrice Daria Deflorian arriva a Tor Vergata a parlarci del suo nuovo progetto, che si chiama proprio “Reality”. E visto che di questo si parla, Katia Ippaso, che è l’altra metà di questo ottavo appuntamento, la invita a raccontare “com’è andata davvero”. Daria racconta di una domenica mattina, di come per caso si sia imbattuta, su La Repubblica, nel reportage domenicale, firmato da un giornalista polacco, dal titolo “La donna che spiava se stessa”. Yanina, casalinga polacca, per ben 54 anni ha riempito 748 quaderni con la metodica annotazione di ogni particolare delle proprie giornate, dalla quantità di mandarini acquistati ai regali ricevuti, dalle persone incontrate per strada alle “visite inaspettate”, in cui figura paradossalmente anche il marito, di ritorno dal campo di concentramento di Auschwitz.
Daria ne rimane folgorata, al punto da maturare in sé la necessità di trasformare questo “incontro casuale” in uno spettacolo.

È allora, questo appuntamento di Novo Critico, il racconto di un inizio, una esposizione, candida e per questo vera, dei frammenti raccolti. Soprattutto il tentativo di interpretarli, di comprenderne la potenza. Nel dibattito che segue l’intensa lettura di qualche stralcio del reportage, si parlerà della differenza tra “reale” e “realtà”, di una “fenomenologia della quotidianità”, di un deciso tentativo di “sedazione dell’evento”. Si dirà che la realtà comprende tanto il reale quanto lo spettacolare, l’evento, quell’atteggiamento grazie al quale sopportiamo l’incubo della ripetizione. A qualcuno viene in mente Hoffmannsthal, a qualcun altro Hannah Arendt, si arriva persino alle bislacche annotazioni di Andrea Pazienza alle proprie stesse vignette. Soprattutto, se da un lato si tenta di individuare il codice adatto a trasformare il tutto in uno spettacolo, ci si interroga se quei 748 quaderni siano già di per sé un’opera. Sì, quell’opera “è la vita”.

Sergio Lo Gatto  
15 novembre 2010

 

 

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Novo Critico 2010. Da Dostoevskij all'avanspettacolo, il teatro è "contro"


Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia
















Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia





















Se Teatro Forsennato elimina del tutto il testo lavorando sull’improvvisazione a canovaccio, Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia tirano in ballo nientemeno che il romanzo russo. “Il premio Dostoevskij” era il titolo dello spettacolo in cui i due artisti prendevano in giro proprio l’istituzione premio nel teatro contemporaneo, mischiando gli alati monologhi dei fratelli Karamazov agli sketch dell’avanspettacolo d’autore (dalla dinastia Maggio ai Fratelli De Rege). In un certo senso mettendo insieme due generi antitetici, per “raccontare – per dirlo con le loro parole – sia l’ambientazione dostoevskiana, sia quello che sta succedendo adesso nel nostro teatro”. Un assaggio di uno e dell’altro ci viene offerto in questo settimo appuntamento di Novo Critico 2010, che vede sullo stesso palco Garbuggino e Ventriglia dialogare con Simone Pacini.
Anche quest’ultimo, come altri suoi predecessori in rassegna, ci tiene a smentire la voce che lo chiama “critico”. Quasi che ormai questa fosse un’offesa. Più probabilmente in molti lo ritengono un termine anacronistico. Fatto sta che Simone preferisce dire di sé che “scrive anche di teatro”. A differenza degli incontri precedenti, in questo non si è parlato poi molto del lavoro di Gaetano e Silvia, piuttosto ci si è buttati in un racconto dettagliatissimo dell’esperienza di “Delitto e Castigo”, da loro presentato nei Quartieri Spagnoli su commissione del Napoli Teatro Festival. Di qui la polemica nei confronti di un teatro che è solo consumo, di qui l’ironia di quel “Premio Dostoevskij”, che fa il verso a queste istituzioni nelle quali sopravvive l’ansia di definire tutto e tutti, salvo poi dimenticarsi di coltivare quanto si è seminato.
E allora Ventriglia fa notare come ci siano ormai intere generazioni di artisti che lavorano soltanto per partecipare a bandi di opportunità, che poi invece li dimenticheranno nella loro angusta casella generazionale. Se i Santasangre lamentavano un’ansia nei confronti del loro futuro da “over 30”, Ventriglia e Garbuggino hanno già girato la boa. E se la domanda, ormai più che legittima, si sposta sul tono quasi disperato di “mentre tutto intorno a te crolla, è giusto fare teatro?”, non c’è neppure bisogno di chiamare in ballo Brecht: la risposta viene da Elvira Frosini (“L’unica cosa che possiamo fare è esserci”), da Silvia Garbuggino (“Se tutto andasse bene non sarebbe giusto fare teatro, ma oggi... ”) e da Ventriglia, che aggiunge come quello di artisti e critica sia un fiero muoversi “contro”. A costo di combattere con i mulini a vento. Senza vergogna. Questa sì che è una bella sfida.


Sergio Lo Gatto
10 novembre 2010

 

 

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Novo Critico 2010. Teatro Forsennato contro gli psicologismi


Teatro Forsennato
















Angelo Tantillo





















Eccoci al sesto appuntamento di Novo Critico. Che cosa succede quando una docente di letteratura teatrale incontra una compagnia che del testo non vuole proprio sentirne parlare? In questo caso, si è trattato – come sempre, finora – di un confronto interessante: ecco dunque Florinda Nardi alle prese con Teatro Forsennato, nella persona del fondatore/autore/regista/attore Dario Aggioli e dell’attore Angelo Tantillo.

“Studio per un manicomio” è il titolo del nuovo spettacolo di cui la compagnia romana, attiva dal 2000, ha presentato all’Università Tor Vergata un breve studio. Se Alessandra Sini e Rossella Battisti avevano galvanizzato l’attenzione del pubblico costruendo una scaletta interattiva in cui si metteva in discussione la percezione dello spettatore rispetto alla danza, Aggioli e Tantillo esordiscono offrendo, in coda alle due scene presentate, un credibile spaccato di “dietro le quinte” in cui il regista tenta di ottenere dall’attore il lavoro desiderato.
Ed è un lavoro fatto di “dettagli” piuttosto che di “psicologia”, si dirà nel dibattito con la professoressa Nardi, alla strenue ricerca di punti di riferimento nell’analisi di un lavoro che sembra voler raggiungere le stesse altezze di altri ma ricostruendosi fondamenta nuove. Aggioli, che qui racconta la vicenda del medico Carlo Angela (padre di Piero) che durante le leggi razziali salvò alcuni ebrei internandoli nel proprio manicomio come finti pazzi, ci tiene a scrollarsi di dosso ogni ingombro rappresentato dal lavoro di un attore sul personaggio. Piuttosto lascia spazio a un racconto estemporaneo che, seguendo un canovaccio stabilito, ricava una realtà scenica dalla somma di presenza dell’attore e immaginario del pubblico, che si fa “autore dello spettacolo”.

Sergio Lo Gatto
8 novembre 2010

 

 

 

(none)



Guardare l'altro teatro 

Quando si parla di critica, in ambienti teatrali si esprime spesso il compianto per un caro estinto, per un’attività rassicurante del bel tempo andato, che una volta c’era e ora non c’è più. Era un ornamento di lusso, uno spazio del pensiero applicato all’esperienza, un momento di confronto per gli artisti e per il pubblico, cancellato dalla marea montante della società dello spettacolo, che educa a non distinguere, a evitare di scegliere, di analizzare, di giudicare, e invita solo a consumare. L’intellettuale – si ripete – si è tramutato in funzionario e in addetto stampa, in propagandista, in una voce confusa tra mille altre che prendono la parola magari tutte insieme, senza caratteristiche spiccate e perciò sostanzialmente inutile.
Non credo che le cose stiano così. È vero: l’atteggiamento critico in genere oggi è evitato, eluso, sanzionato; si preferisce adagiarsi nel flusso delle correnti dominanti. Eppure segni di rifiuto a farsi cannibalizzare esistono e sono vivissimi, grazie anche alle nuove possibilità di internet, grazie a un teatro che a sua volta si interroga in modo continuo, ponendo il confronto come una delle necessità ineliminabili. Forse è cambiato il ruolo, sono mutati i supporti, la vecchia aristocratica professione del bello scrivere si è democratizzata, con l’inevitabile contraccolpo di perdere alcune prerogative, di smarrire certi punti fermi.
Andiamo, per esempio, a Roma, tra le periferie in movimento di Tor Vergata con la sua Università Roma 2 e la nuova zona di ritrovo, vita sociale, avventure imprenditoriali e intellettuali del Pigneto, sulla Casilina. In uno spazio del Pigneto nuovo, in via De Agostini, in un ex magazzino di non molti metri quadrati, ha sede l’associazione Kataklisma, fondata da Elvira Frosini, una danzatrice che deborda dai codici coreografici per spettacoli dove anche la parola sostiene penetranti viaggi in mitologie contemporanee. Nel 2008 aveva organizzato Uovo critico. Quest’anno è riuscita a rimettere in piedi la rassegna col il nome di Novo critico. La formula mette a confronto un critico con un artista o un gruppo di teatro o danza che presenta un lavoro in divenire o una sintesi del proprio percorso. Entrambi i contendenti si muovono su terreni laterali rispetto a quelli ufficiali: i critici raramente scrivono su giornali, molto più di frequente collaborano a riviste, siti internet, blog, esperienze indipendenti come “Altre Velocità” o “Krapp's Last Post” (che documenta l’iniziativa); gli artisti praticano territori di sperimentazione variamente configurati.
Partecipa un pubblico di studenti e di appassionati e altri gruppi che stanno elaborando strumenti di impegno artistico o critico originale. Intorno a uno o più frammenti di spettacolo già fatto o da farsi si innesca un’analisi, un discorso, un dibattito che spazia dal commento all’interrogazione sulla prospettiva di creazione, alla discussione dei temi evocati. Soprattutto è un dialogo tra critico, artista e pubblico che rappresenta effettivamente un nuovo modo di fare critica. Non un giudizio frontale, definitivo per uno spettacolo concluso, ma una seduta analitica (di analisi teatrale? sociale? psicanalitica?) di materiali in via di definizione, che produrrà un risultato originale attraverso il confronto di esperienze, visioni, idee, possibilità.
I contendenti sono stati finora Daniele Timpano e Nicola Viesti, Andrea Cosentino e Claudia Cannella, Santasangre e Antonio Audino, Alessandra Sini e Rossella Battisti, Teatro Forsennato e Florinda Nardi, Gaetano Ventriglia con Silvia Gabbuggino e Simone Pacini; prossimamente saranno Daria Deflorian e Katia Ippaso, Ambra Senatore e Rodolfo Sacchettini, Accademia degli Artefatti e Andrea Porcheddu.

presepe.jpg

Digerseltz

Anche chi scrive ha fatto un incontro, con Elvira Frosini, che ha presentato un assolo intitolato Digerseltz. Una quindicina di minuti, con l’attrice-performer separata dal pubblico dalla riproduzione bidimensionale di alcune figurine di un presepe napoletano, un monologo (almeno in questa fase) sul cibo, una asciutta incisiva presenza fisica e un fiume di parole che riprendono con cifra ironica stereotipi su quell’attività primaria, sociale, personale, collettiva che è il mangiare. Il tema è ambizioso e di questo si è parlato alla fine, notando anche come l’autrice stia passando sempre più dal teatro danza a spettacoli abitati dall’esigenza di comunicare verbalmente.
ELVIRA FROSINI DIGER PRIMO ST 1.jpgSembra quasi divorata dalle parole sul cibo, spesso cliché, che la parlano, la dominano, la guidano in rituali sociali e mitologici dove appaiono le figure di Saturno che mangia i propri figli, una bionda Marilyn in preda a parole, canzoni, uomini, fino a un’apertura verso il pubblico aprendo la barriera del presepe, metafore di ganasce sempre in movimento, che scambiano il piacere con il possesso. Parole, parole, parole, per sostituire atti dei quali abbiamo perso la necessità, l’urgenza. Sulla sfondo una torta con candelina e un agnellino di peluche, uno dei giocattoli che costellano sempre le visioni pop di questa attrice-autrice dal segno essenziale ed efficace come un sacrificio. Lo spettacolo ripercorrerà i rituali della festa di compleanno, il banchetto, l’orgia, il convivio funebre, indagando le funzioni di un cibo che invade sempre di più la nostra società vorace o anoressica.
Durante l’incontro, analizzando questi iniziali appunti che si sono visti, si è parlato di ciò che ancora non c’è, di come l’attrice vorrebbe introdurre due altri attori, uomini, di come questo inserto cambierebbe tutto portandolo verso confini inaspettati. Uno spettacolo da farsi, che si offre in pasto agli sguardi con domande in questa fase ancora irrisolte, cercando nell’incontro suggestioni in cambio di quelle offerte, provando a rappresentare un percorso e un modo di lavorare attraverso questa stessa aperta interrogazione.
Immagine di anteprima per ELVIRA FROSINI DIGER PRIMO ST 6.jpg
Un'ultima nota: nel pubblico c'erano molti critici giovani e di mezza età. Il dibattito è stato partecipato, in certi momenti acceso: ho avuto l'impressione di un momento molto vivo della riflessione sul teatro a Roma.
Al progetto di Novo critico partecipano anche il Dass dell’Università La Sapienza, Radio 3, la Fondazione Romaeuropa, l'assessorato alle Politiche educative, scolastiche, della famiglia e della gioventù del Comune di Roma, l'ufficio Politiche della gioventù. Un osservatorio formato da studenti delle due università, coordinato da Roberto Ciancarelli e Donatella Orecchia, segue gli incontri.

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Massimo Marino,Controscene
6 novembre 2010

 

 

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Novo Critico 2010. Elvira Frosini a cena con Massimo Marino

Elvira Frosini


















Si torna a Kataklisma, per il quinto appuntamento. Oggi gioca in casa Elvira Frosini, che di Kataklisma è l’anima. A conversare con lei e con il pubblico Massimo Marino, critico del Corriere della Sera di Bologna che, oltre alla carta, imbratta fortunatamente anche il web, con il seguitissimo blog Controscene.

“Digerseltz” è il titolo provvisorio dello spettacolo di cui Frosini presenta solo, per ora, dei “primi appunti di lavoro”.
Dietro una barricata fatta di sagome di personaggi del presepe, prende vita una cruda drammaturgia di parole masticate e preghiere laiche, come sempre all’insegna di un’ironia grottesca e profondamente pop. Come nel precedente lavoro di Kataklisma “Buffet”, il cibo è qui l’argomento principale, la traccia topica di una bulimia intellettuale, al servizio di quell’estetica tutta personale che Frosini, con la consueta abilità, costruisce sul proprio corpo e nella scena. Perché il cibo? Perché ci riguarda tutti. “Chi è che non mangia?”, domanda giustamente Elvira.
Allora ecco che uno spettacolo sul cibo può diventare qualsiasi cosa, soprattutto se si rivolge a un critico e al pubblico la cloche dei suggerimenti. C’è l’occidentalissima strategia del ricatto (“se non mangi, arriva l’uomo nero e ti mangia”), un auto-talk show che sa di lista della spesa e fame tossica. Qualcuno ci vede una riflessione sulla società dei consumi, qualcun'altro sulla condizione della donna; per alcuni è ingombrante la presenza del presepe (che è sì pop, ma parla di una cultura assolutamente connotata), altri vorrebbero capire meglio l’evoluzione di questa abbuffata di temi.

Massimo Marino è un moderatore attento e umile, suggerisce spunti ma si sforza di non definire, ché la cosa più interessante è assistere alla creazione di un’idea. Qualche assaggio di quel che sarà ci viene già offerto, ma la scelta degli ingredienti e dunque il successo della ricetta sono tutti da sperimentare. E poi da digerire. Questa è nouvelle cuisine. Ma di quelle che saziano.

Sergio Lo Gatto
3 novembre 2010

 

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Novo Critico 2010. Alessandra Sini e la danza "non-familiare"

Alessandra Sini (photo: sistemidinamici.it)

















Il quarto incontro di Novo Critico si apre alla danza. All’Università di Roma Tor Vergata la danzatrice/coreografa Alessandra Sini (Sistemi Dinamici Altamente Instabili) ha incontrato Rossella Battisti, che, a scapito del polveroso termine “critico”, ci tiene a definirsi "cronista".
Questa volta Novo Critico fa davvero centro, grazie a una “scaletta” ben preparata. Invece di mostrare uno studio e poi passare direttamente al dibattito, Sini e Battisti scelgono di calarsi completamente nell’approccio critico, coinvolgendo il pubblico come mai era accaduto finora.
Alessandra Sini presenta “Una”, assolo che vive e respira proprio dell’assenza di altri danzatori e gioca con la percezione dello spettatore solleticandone le piccole memorie sopite.

Tornata la luce nell’auditorium universitario, Battisti rivolge al pubblico la fatidica domanda, quella che chiunque (addetto ai lavori e non) vada a vedere della danza si pone un po’ intimorito: “che cosa avete visto?”
Per uno è stato divertente, per l’altra straniante, ora sembrava pattinasse, ora imitasse una statua, era goffa, inquietante, io ci ho visto questo, io quello. Ed è proprio lì che coreografa e cronista vogliono arrivare, a far capire che tutto ciò che questa danza fa è creare uno spaesamento, un cortocircuito tra la realtà come la conosciamo e le infinite variazioni che un corpo “diversamente abile” riesce a portare in scena. Allora si passa dall’accurato excursus della modern dance al concetto di unheimlich, quel “non familiare” che crea instabilità nella percezione di un’immagine e che influenza il messaggio consegnato al pubblico.
E così il pubblico è davvero coinvolto. Studenti e addetti ai lavori sono attenti, partecipi. Ciascuno dice la sua, non c’è voglia di scappar via, siamo tutti qui non solo a imparare qualcosa, ma a comprenderne le motivazioni.
Delle opportunità della danza, della sua potenza espressiva e delle sue, ahimè, troppo spesso ignorate potenzialità parleremo nell’intervista in cui, come al solito, ad essere denunciato è il mancato coraggio di certi operatori. Ma forse anche un po’ di cecità.

Sergio Lo Gatto
1 novembre 2010

 

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Novo Critico 2010. Santasangre tra immagine e ragionamento

Santasangre


















Primo incontro di Novo Critico all’Università di Roma Torvergata. È il turno dei Santasangre, che in una piccola ma agguerrita delegazione composta da Diana Arbib e Roberta Zanardo incontrano il critico/docente Antonio Audino.
Purtroppo l’orario pomeridiano di un giorno infrasettimanale, unito a una location non proprio centrale, non favorisce l’affluenza dimostrata invece dalle popolose serate a Kataklisma con ospiti le coppie Daniele Timpano/Nicola Viesti e Andrea Cosentino/Claudia Cannella.

Chi per qualche minuto, chi per l’intera durata dell’incontro, quelli che si affacciano e prendono posto sono perlopiù gli studenti del secondo ateneo romano, alla ricerca di un momento di confronto con questa creatura sfuggevole che è la scena contemporanea.
Per chi non li conoscesse, i Santasangre sono un collettivo romano nato intorno alla realtà indipendente del centro sociale Kollatino Underground, attivi da ormai più di cinque anni all’interno di una approfondita ricerca dell’immagine e dell’impatto scenico come medium preferito per “emozionare”, per “instaurare una dialettica con lo spettatore”. A differenza delle altre serate di Novo Critico, al posto di uno studio live del nuovo progetto, i Santasangre hanno proposto una selezione video del loro percorso artistico dal 2006 a oggi (proprio perché la loro cifra stilistica, fatta di scenografia, atmosfera e tecnologia, non permetteva un’installazione in un’aula universitaria).
Corposa e critica la loro esposizione, interessanti gli spunti di riflessione, attorno a un gruppo riconosciuto in Italia e all’estero come una delle realtà teatrali più innovative e interessanti. Certo, non dalle istituzioni “che paghiamo con i nostri denari, che non sanno assolutamente chi siano”, fa notare Audino.
Allora la domanda è: esiste un modo per mostrare alle istituzioni quali sono i veri ritmi di questa scena contemporanea?
Ci chiediamo se la pubblicazione del video che segue possa aiutare; ci chiediamo anche (e i Santasangre con noi) se quell’aggettivo “nuovo” applicato alla “scena performativa” sia poi davvero legato a ragioni anagrafiche o invece affondi le proprie motivazioni in una ricerca genuina.

Sergio Lo Gatto
25 ottobre 2010

 

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Novo Critico 2010. Il teatro di figura di Andrea Cosentino

Andrea Cosentino














 



Una nutrita folla di spettatori si è radunata di fronte allo spazio Kataklisma per il secondo appuntamento di Novo Critico, pronta ad assistere al secondo “match” tra gli artisti Andrea Cosentino e Francesco Picciotti e il critico Claudia Cannella.
"Esercizi di rianimazione" è il titolo che riassume i due frammenti presentati: il primo da Picciotti, all’esterno dello spazio al Pigneto, dove l'ormai celebre pupazzo di Artaud (praticamente un feticcio cosentiniano) mendica fuori da un teatro con voce registrata; il secondo da Cosentino, in una sala gremita dove l’artista improvvisa giocando con numerosi oggetti a lui cari e mettendoli in assurda relazione tra loro.
E la gente ride.
Di qui parte la provocazione, in forma di domanda al pubblico, di Claudia Cannella (direttrice del trimestrale Hystrio e redattrice del Corriere della Sera milanese): “Perché ridete?”, a domandarsi se quella di un pubblico per la maggior parte “complice” sia una risata spontanea oppure semplicemente un modo per sottolineare e ribadire la propria appartenenza a un mondo comune.

Ecco da dove parte il dibattito, in cui Cosentino e Picciotti spiegano il loro modo di intendere il teatro, sollecitati da Cannella che investiga quale sia il tema – o il non tema – che intendono raccontare. Il pubblico si anima, quasi si infervora. Molti gli interventi, quasi tutti però da parte dell’entourage cosentiniano.
Il valore aggiunto dell’evento resta sicuramente l’atmosfera rilassata e informale, con gli ironici rimandi e paragoni con “il pubblico del Teatro Eliseo”.

Sergio Lo Gatto

18 ottobre 2010

 

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Novo Critico 2010. Chi è di scena per Daniele Timpano e Nicola Viesti


Daniele Timpano

















Ci siamo. Dopo due anni di fermo, la serie di incontri che nel 2008 aveva portato il nome di Uovo Critico, torna sul palco romano di Kataklisma con il nome, nuovo appunto, di Novo Critico. Un secondo tentativo, che si spera raggiunga e superi il successo riscosso dalla precedente edizione. Una delle poche arene in cui, in questo momento delicato per l’intero ambiente teatrale, le tre belve che lo compongono (artisti, critica e pubblico) hanno occasione di fronteggiarsi e, potenzialmente, sbranarsi. Questo è, in due parole, l’evento che KLP seguirà come media partner fino al 3 dicembre. Tutti i video e il materiale prodotto verranno pubblicati nella nuova sezione Partnership.   Alla conferenza stampa di presentazione del 6 ottobre al Nuovo Teatro Colosseo, a “casa” del grande Simone Carella, erano presenti gli organizzatori, alcuni artisti e critici in programma, la nostra telecamera e i pochi giornalisti che hanno deciso (chissà poi se inviati o mossi da un buffo senso del dovere autonomo) di registrare il passaggio di questo tentativo. Perché di questo si tratta, di un tentativo, un esercizio, ancora prima che di un esperimento.

Il titolo dello spettacolo di cui Andrea Cosentino presenterà il 15 ottobre qualche passo è “Esercizi di rianimazione”. La critica Katia Ippaso in conferenza stampa ha colto l’occasione per fare di quel titolo un sottotitolo di Novo Critico stesso. Questo vorrà essere un “esercizio di rianimazione”, rivolto alla critica e al suo rapporto (in via d’estinzione) con pubblico e artisti.

Daniele Timpano ha aperto le danze incontrando Nicola Viesti. L'uno è attore/autore iconoclasta e grottesco (tra i suoi lavori “Ecce Robot”, “Dux in scatola”, “Risorgimento Pop”); critico del Corriere del Mezzogiorno, Hystrio e Eolo l’altro. È durata quasi mezz’ora la presentazione in forma di studio del nuovo lavoro di Timpano “Aldo Morto”, racconto del sequestro Moro a partire dalla persona più che dalla leggenda. Sempre senza pietismi, piuttosto alla ricerca di una terza via che si insinui tra il vero e il verosimile. In pieno stile Timpano è l’attacco a un personaggio che, stavolta, è davvero acquattato nell’immaginario di tutti, più mito che uomo, più oggetto della cultura pop che simbolo della storia italiana.
C’è stato fin troppo entusiasmo (qualche discussione) tra il pubblico, stretto all’angolo dal fuoco dell’attacco cattivo di Timpano, con Viesti a far quasi da paciere, alla ricerca, tutti quanti (artista, critico e pubblico) di punti di riferimento per far procedere il lavoro. Non senza frecciatine, fraintendimenti e qualche malinconia.

Sergio Lo Gatto
11 ottobre 2010

 

TEATRO E CRITICA

 

 

 

La rianimazione di Novo Critico: dieci appuntamenti con la scena contemporanea

L’incontro. C’è questa parola alla base dell’interessante progetto Novo Critico, giunto alla seconda edizione ma saltandone una, lo scorso anno, per manifesta impossibilità finanziaria. Elvira Frosini, fondatrice dello spazio Kataklisma e l’omonima compagnia di teatro-danza, quest’anno ce l’ha fatta, con l’aiuto dell’amministrazione: dieci appuntamenti in cui alcune compagnie del panorama contemporaneo si confronteranno con pubblico e un critico, un vicino di sedia direi, una guida attraverso lo scambio degli occhi: quelli dell’artista e quelli di chi guarda, un compagno di strada attraverso quel tortuoso percorso che è la creazione.
Gli appuntamenti saranno in questa autunnata che a Roma tarda ad arrivare, fino all’inverno prima che si passi l’anno 2010. Dall’8 ottobre al 3 dicembre quindi, si comincia questo venerdì 8 ottobre alle 21 con Daniele Timpano, che presenterà 15 minuti del suo nuovo progetto in fieri: Aldo Morto, un nome un programma, accompagnato alla visione-creazione da Nicola Viesti, e da tutti coloro che vorranno recarsi allo spazio del Pigneto, nato in questo quartiere quando ancora non c’era nessuno a ricordarsene il nome. Si continuerà con programma irregolare fino a dicembre, con Kataklisma, Cosentino, Teatro Forsennato, Santasangre, Daria Deflorian, Ambra Senatore, Accademia degli Artefatti, Malasemenza, Alessandra Sini, tanti artisti, tanti amici: eh sì, perché se vogliamo trovare qualcosa a questo programma, è proprio questo: ma possibile che sembra il giochino “unisci i puntini” della Settimana Enigmistica? Dove c’è Timpano c’è Cosentino ecc. ecc. Ma insomma, meglio averli che non averli, di sicuro. L’intero percorso, che vedrà la collaborazione delle prime due università di Roma: La Sapienza e Tor Vergata, con Roberto Ciancarelli e Donatella Orecchia, sarà seguito da un laboratorio degli studenti di queste università, che offriranno anche alcuni spazi per gli incontri. Tra i critici ci sarà Claudia Cannella, Giulio Latini, Katia Ippaso, Rossella Battisti, Florinda Nardi, Massimo Marino, Rodolfo Sacchettini, Andrea Porcheddu, Simone Pacini; in più Roberto Ciancarelli curerà un deposito critico, assieme a Paolo Ruffini, ma ci sarà anche una officina critica condotta da Attilio Scarpellini e forse altri critici della città teatrale. Ci sarà anche la tv, per una volta, anzi due: infatti media partner saranno i nostri colleghi di KLP che avranno in video tutti gli incontri sulla rivista e E-Theatre che invece permetterà di vederli in streaming.
Tra le parole pronunciate questa mattina in conferenza stampa, quella più giusta l’ha detta Katia Ippaso, traendola dal titolo dello spettacolo di Cosentino: “questo è davvero un esercizio di rianimazione…”, intendendo che unire forze e farne un valore potrà e dovrà essere determinante. E poi una frase senza pretese, più di altre, detta da Timpano: “tra le altre cose”, per dire delle tante attività di ognuno, della bellezza della compromissione, una frase che così vuol dire poco, ma si unisce sempre a un contesto. Qui il contesto è di tutto rispetto e me ne attendo ottime cose, perché l’incontro è sovrano di ogni nascita, di ogni nuova appartenenza, ma come tenere a bada il rischio di confusione? Perché è vero che dal caos nasce l’ordine, ma l’epoca moderna ci ha insegnato anche che senza l’ordine a volte a regnare è proprio il caos. Ma tanto basta: la connessione è fermento, c’è voglia e bisogno dell’incontro, e allora che ci si incontri in così tanti, e magari ci si scontri pure, l’importante è che non si crei quel che ripeteva di continuo mia nonna: “co’troppi galli a cantà nun se fa mai giorno”, intendendo dire che, nella malaugurata ipotesi che troppi piumati della stessa specie siano nello stesso giardino, con il compito di svegliare un’intera popolazione di spettatori, c’è il rischio fondato che si resti tutti nel letto di una straordinaria dormita collettiva. Ma per Novo Critico non sarà così, pertanto giù dal letto, tutti in piedi per gli esercizi di rianimazione di un nuovo splendido primo mattino.

Simone Nebbia
7 ottobre 2010


KLPTEATRO.IT

Novo Critico 2010. Quando critica, pubblico e artisti lavorano insieme


Guai a chi cerca ancora di affermare che artisti, pubblico e critica sono entità separate, mondi distanti. Due anni fa, a Kataklisma Teatro, gestito dall’omonima compagnia (sotto la guida di Elvira Frosini) al quartiere romano del Pigneto, si era svolta la prima edizione di quello che allora si chiamava “Uovo Critico”. Il progetto mirava a creare uno spazio di lavoro e riflessione comune in cui si quelle tre entità si potessero incontrare. L’esigenza proveniva da una crescente diffidenza nata intorno al legame che doveva e dovrebbe fare da collante per la prosperità e la conservazione del teatro contemporaneo. Del teatro, ci piace tornare a dire, “sperimentale”, nel senso proprio del termine, cioè quel genere di lavoro che vede la scena come terreno di sperimentazione scientifica.

Le disastrose circostanze (economiche e non solo) dei mesi passati avevano reso impossibile la replica di quell’evento nell’annata 2009. Ora la volontà di preservare quel legame torna a farsi più che mai urgente. Da questa piccola storia nasce, con appunto rinnovata forza, “Novo Critico – Appuntamenti tra critica e nuova scena performativa”. La formula resta più o meno invariata: sono stati selezionate 10 compagnie/artisti e 10 critici; nel corso di due mesi (dall’8 ottobre al 3 dicembre 2010), si terranno degli incontri che testimonieranno la relazione tra queste due categorie, il tutto di fronte alla terza: il pubblico.
Per gli spettatori non si tratterà tanto di assistere a una sorta di “incontro di boxe” tra critico e artista, quanto piuttosto di essere parte integrante del formarsi e del consolidarsi di un rapporto che per forza di cose esiste da sempre. La creatività incontra la considerazione estetica: il critico viene messo in contatto con l’artista al momento della definizione del calendario, in modo che abbia tempo e modo di approfondirne il lavoro, comprenderne l’estetica, riflettere sulle sue motivazioni di fondo. Durante l’incontro l’artista presenterà il proprio lavoro davanti al pubblico e al critico di turno, con il quale si intavolerà la discussione. Non un semplice dibattito, ma la costruzione di una strada estetica completa, il tentativo di riunire le forze verso una meglio definita direzione, un percorso più consapevole nella creatività come nella sua traduzione in un codice comprensibile per gli spettatori.

L’evento, promosso dal Comune di Roma, presentato in collaborazione con DAMS di Lettere e FIlosofia dell'Università di Tor Vergata, DASS, Facoltà Scienze Umanistiche, La Sapienza, Università di Roma e con il partenariato di Fondazione Romaeuropa, prevede per quest’anno l’inserimento di una nuova collaborazione, chiamata “Deposito Critico”: il prof. Roberto Ciancarelli (docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo e Storia della Danza e del Mimo all’Università di Roma La Sapienza) e Paolo Ruffini (giornalista, critico e studioso di teatro, che dirige, tra l’altro, la collana “Spaesamenti” per Editoria&Spettacolo) saranno “testimoni speciali e competenti” degli incontri di Novo Critico, offrendo un contributo fondamentale all’approfondimento della discussione. Proprio perché, per chiudere il cerchio, la volontà del progetto promosso da Kataklisma e amnesiA vivacE è quello di restituire alla critica l’approfondimento di contenuti necessario a valorizzare il lavoro di chi fa il teatro. L’ultima iniziativa sarà quella, già sperimentata nei festival più all’avanguardia, di istituire un Osservatorio Critico, coordinato da docenti delle Università di RomaUno (Elena D’Angelo e Francesca Magnini, coordinate dal prof. Ciancarelli) e RomaDue (Giada Oliva, Francesca Bini e Maria Rita Di Bari, coordinate dalla prof.ssa Donatella Orecchia).

Si parte l’8 ottobre con l’incontro tra Daniele Timpano e Nicola Viesti. Gli appuntamenti successivi di ottobre prevedono Andrea Cosentino / Claudia Cannella, (15 ottobre), Santasangre / Antonio Audino (il 20), Alessandra Sini / Rossella Battisti (il 26) e Kataklisma / Massimo Marino (il 29). E via fino al 3 dicembre (vai al programma completo), ospitati ora dallo spazio Kataklisma e ora dall’Università di Tor Vergata. Krapp’s Last Post seguirà l’evento come media partner ufficiale insieme a Radio Tre. Filmeremo tutti gli incontri, dei quali daremo conto pubblicando via, con la maggior celerità possibile, un breve montaggio video di qualche minuto che offra un’idea delle questioni emerse, dei passi fatti insieme. Nel corso dell’evento intervisteremo anche gli artisti e i critici coinvolti, per dimostrare davvero che, se questo è il momento di far rinascere la critica, KLP è qui e si batte in prima linea.
la Redazione di Klpteatro.it
4 ottobre 2010


 IL DOPO TEATRO

Novo critico: la critica è viva

A breve inizia Novo Critico: una serie di incontri tra attori, pubblico e critica. A ogni aritsta viene affiancato un critico: costretti a dialogare ne uscirà qualcosa che verrà presentato al pubblico. Un'opportunità unica per il triangolo della perfezione! Finalmente.
Ho sognato per poco che mi avessero scelto per partecipare come critico e così ho sognato di parlare con un pò di balbettìo e la "r" moscia: "Dovrei esordire con la frase più banale al mondo: la Critica è morta! Ma che cazzo vuol dire? Allora dico che la Critica è viva. O meglio ci sono dei morti che ancora scrivono e dei vivi che vorrebbero. Ci sono certi morti che, essendosi fatti rosicchiare riga a riga il loro spazio sul giornale, hanno riversato le idee sul web uccidendo, da morti, la Critica stessa e, cosa quanto mai rara, il web journalism. Sembra che sfoghino quel pensare vacuo che non possono mettere nel giornale. Aprono dei blog nei siti dei quotidiani nazionali e si abbandonano. E non se ne abbia a male qualcuno in sala!
Poi c'è una nuova generazione (che va dal ventenne al settantenne), lungimirante, che prova a capire e smontare uno spettacolo con la tecnologia. Fa della sintesi il dono più grande alla recensione e quando trova l'artista a lui congeniale lo studia con tutta la tecnologia possibile.
E' quanto di più lontano dal teatro riprodurre uno spettacolo con un video, ma è altrettanto lontano non parlarne a dovere per conservare una memoria. Il Critico deve cadere a piombo nelle reti che l'artista ha posto per sè e per il pubblico. Mai creerà qualcosa per un critico.
E allora direi ai morti, ai quali riconosco l'autorevolezza che si mostra ai morti, di farsi da parte. Fate altro. Noi siamo più sporchi di voi, siamo senza sciarpa, abbiamo lasciato cadere tante vostre credenze...in sintesi abbiamo avuto Maestri diversi che voi non avete conosciuto. Tutto qui.
Se il Teatro è contemporaneo i morti sanno cosa fare."
redazione Il Dopo Teatro
3 ottobre 2010