MATERIALI E RIFLESSIONI

 

LETTERA APERTA DI KATIA IPPASO

Lettera aperta agli amici critici


Cari amici, scrivo queste righe di getto perché ho sentito che ieri sera è accaduto qualcosa. L’occasione era la presentazione del libro di  Andrea Porcheddu e Roberta Ferraresi, “Questo fantasma, il critico a teatro”. Non un libro su Wikileaks. Non un instant book su Rudy nel letto di Berlusconi. No, un libro su chi scrive di teatro. Il critico di teatro, che Andrea battezza “il fantasma”. Ebbene, attorno a questo fantasma ieri si sono mosse delle energie che non possono andare trascurate. Tanto per cominciare, tra il pubblico c’erano almeno altri dieci fantasmi. Dato straordinario, per chi conosce l’inerzia, l’antagonismo e la supponenza della nostra classe critica. Non solo c’eravamo, ma abbiamo parlato tutti. Ci siamo esposti. Ci siamo sentiti meno soli. C’eravamo per il libro di Andrea e perché, in vario modo, avevamo preso parte agli incontri di Novo critico, questa “stravaganza” inventata da Elvira Frosini, che contamina la parola “critico” con un sincretismo: un uovo (quindi la fertilità) nuovo (giovane) che diventa subito esca per il lavoro dell’immaginario.

Molti di noi si conoscono da tanti anni e hanno passato momenti difficili e spesso disarmonici. Ciascuno di noi ha lottato non soltanto per un’idea ma per tentare di farcela, per non soccombere, per non cambiare strada. In questa lotta per la sopravvivenza abbiamo perso di vista l’obiettivo. Ho sentito spesso dire che gli anni Novanta erano anni migliori rispetto ad oggi. Non è vero. Questi sono anni migliori. Perché nel frattempo tutto quello che doveva sgonfiarsi si è sgonfiato, quello che doveva cadere è caduto. Ed oggi siamo magnificamente vuoti, anemici, più umili, e bisognosi di parole nuove.
Siamo in un momento di passaggio. Forse Berlusconi uscirà di scena, ma con lui non sparirà il berlusconismo. Ne può uscire ammaccato, con qualche graffiatura, con un sorriso meno smagliante, leggermente più cereo, un po’ invecchiato, ma il fantoccio del signor B. ormai è ben piantato nel nostro immaginario, perché non l’abbiamo subito ma creato, gonfiandolo a dismisura, ebbri di felicità.
Nessuno ci ha impedito di fabbricarci il nostro Ubu Re, il padrone-servo dei nostri bassifondi onirici. Non ce lo ha impedito la Sinistra, che si è limitata ad alzare la bacchetta dei maestri saccenti tutte le volte che gli  scolari svogliati diventati presidi (è chiaro che tutto il berlusconismo ha significato la rivincita degli ultimi della classe) si prendevano eccessive libertà. Non ce l’ha impedito l’Europa e neanche l’America né il mondo tutto, che ha sfilato col G8 all’Aquila, partecipando al più nefasto banchetto della storia italiana, pascendosi dei resti dei cittadini abruzzesi massacrati da troppi terremoti. Non ce l’ha impedito il nostro oscuro senso del pudore che è sintomo di una doppia morale ben radicata nei nostri animi.

Perché parlo qui di Berlusconi? Perché è di questo che dobbiamo occuparci. Dobbiamo occuparci di chi ci governa, perché noi non siamo migliori, e quelli che si autorappresentano come migliori a volte lanciano dei messaggi occlusivi, monologanti, convinti di incarnare il bene. Antonio Audino parlava di “Vieni via con me”. Ne parlava con disagio, ed è proprio dal disagio che ho avvertito nelle parole di Antonio che dovrebbe nascere una nostra assunzione di responsabilità.
Ma chi siamo noi? Cosa vogliono “questi fantasmi”, cosa cercano, cos’hanno da dire vent’anni dopo a quelli che vengono ora? E cosa hanno da dire i giovani critici (che magari fantasmi ancora non si sentono) a noi e agli artisti con cui sono chiamati a dialogare?
Claudia Cannella chiudeva il suo discorso con una terrifica domanda: Siamo sicuri di essere migliori di quelli che ci hanno preceduto, o alla fine non desideriamo altro che sostituire i baroni della critica che ci hanno mangiato vivi (o ci siamo fatti mangiare vivi)? Dobbiamo forse aspettare la loro morte? Angosciante ipotesi, indegna di persone che usano la scrittura e il pensiero per vivere.
Lo ha detto tante volte Andrea Porcheddu, con una sincerità che non era difficile leggergli nel volto: abbiamo il compito di dire qualcosa agli artisti e a quelli che verranno. Torniamo ad usare la scrittura critica senza vergogna, con competenza, con giudizio. Accanto a chi il teatro lo fa, ma non confondendoci con gli artisti, che non hanno peraltro nessuna voglia di mischiarsi a noi. Viaggiamo viaggi paralleli, interroghiamoci, non tiriamoci mai indietro.
Massimo Marino ha fatto sapere che il libro gode di ottima salute. Sì, persino i libri di teatro stanno bene e qualcuno li legge persino. Mi permetterei di aggiungere che non soltanto il libro di teatro, ma anche l’essere umano sta tornando “di moda”.

Se la videocrazia ha potuto assestarsi come modello vincente in questi ultimi vent’anni, è perché si è operata una lenta ma irreversibile trasformazione dell’immaginario.
Vogliamo lasciare le cose come stanno? Non è forse venuto il momento di uscire dalla nostra miserevole  nicchia per occuparci di quello che è accaduto e di quello che sta accadendo attorno a noi e dentro di noi? Non sarebbe bello contribuire a fabbricare un nuovo immaginario, presentandoci l’uno all’altro come comunità?

Sarà importante testimoniare la nostra “presenza in vita” prima che la nostra presenza come critici.
I tempi sono maturi. Se l’essere umano sta tornando di moda - dopo anni di mortificazione, di simulacri, di finzioni -, allora anche noi, soprattutto noi che ci occupiamo di corpi parole e oggetti vivi, abbiamo il dovere di misurarci con quel che resta dell’umano.
Non si tratta solo di scrivere delle belle recensioni (meglio se sono belle, e basta con le involuzioni: hai ragione Claudia), quanto di “ficcarci nel cranio del mondo”.
E’ un momento di cambiamento politico. Ma c’è poco da festeggiare se permettiamo che l’opposizione in Italia si faccia “solo” in tv, che la tv divori le forme del teatro e ogni possibilità di pensiero in movimento. Per quanto innovativa, la tv d’opposizione è pur sempre una grande macchina di spettacolo, con le sue regole mute, autoreferenziali, incapaci di sostenere la bellezza di un pensiero in continua rivolta, capace, al contrario, di celebrarne ad ogni nuovo passo il funerale.
Se il dissenso confluisce, con tutti i suoi rami tagliati male, dentro la grande macchina di produzione delle idee che si fabbricano sempre altrove, non ci resterà che applaudire un giorno l’avvento di un nuovo Ubu Re. In caso contrario, ci ritroveremo sempre più soli e incavolati a tormentarci nell’ombra.
Noi ci occupiamo di teatro. Il teatro è fatto di esseri viventi. Il teatro è pensiero in movimento. Lo dice Massimo, lo hanno ripetuto in tanti: non ci resta che pensare. E soprattutto uniamoci, dialoghiamo, non disperdiamo  le energie. Non dobbiamo essere per forza d’accordo sulle idee, ma almeno stringiamoci attorno a delle idee che siano tali. Critici, scrittori, attori, registi, spettatori, tutti, usciamo allo scoperto. Come è successo l’altra sera, dove, una volta tanto, non abbiamo fatto una riunione di condominio, ma abbiamo registrato i segnali di bellezza ma anche quelli di allarme. Non illudiamoci che, siccome l’abbiamo sfangata una volta due volte infinte volte, la sfangheremo ancora. Il pericolo è reale. E perdonatemi questa citazione da Pasolini: “Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo”.
Io la penso come Simone Nebbia: “Scrivere è conoscere”. Il resto non dovrebbe importarci.

Katia Ippaso
Roma, 4 dicembre 2010



LE RIFLESSIONI CRITICHE DI RODOLFO SACCHETTINI

Ambra Senatore: a passi di ironia

Nell’incontro pubblico con Ambra Senatore, dopo la sua breve azione coreografica realizzata con Caterina Basso tratta dall’ultimo spettacolo Passo, sono emerse alcune questioni riconducibili in parte al tema dell’ironia. Che cos’è l’ironia? Come funziona? Che tipo di relazione si innesca con il pubblico? E soprattutto come viene oggi trattata l’ironia, che uso se ne fa e che implicazioni comporta? La sensazione è che in questi ultimi decenni all’ironia si ricorra in maniera sempre più diffusa, come fosse un salvagente. Da strumento di intelligenza e di analisi pare allora trasformarsi in arma, dispiegata per salvaguardare la superficie delle cose, per bloccare slanci o desideri di profondità. Invece di stimolare i pensieri, spingerli sempre più avanti, l’ironia di oggi, spesso brutale e rozza, tarpa le ali, legittima la stupidità. Ma questa non è più ironia evidentemente, bensì la sua degradazione. Di questi tempi, nelle conversazioni, l’”ironia” cialtrona fa ovunque la sua comparsa come un disco rotto, tramuta la riflessione in barzelletta, semplifica, rende tutto ammissibile, detta il ritmo dei dialoghi, dando vita a tratti a una sorta di contrappunto del consenso come fa la risata registrata in una sit-com. L’ironia cialtrona-televisiva tramuta immediatamente la critica in chiacchiera e di questi tempi non c’è da stupirsi: è cosa impervia essere rigorosi, prima di tutto con noi stessi, sforzandosi di distinguere il più possibile la natura di ciò che si ha davanti. Lavorare seriamente con l’ironia è insomma molto difficile e ci vuole una certa grazia, quella del saper stare dentro e fuori le cose, che, molto spesso in scena il “corpo”, col suo strenuo esercizio di una qualità, la presenza, riesce a mantenere meglio rispetto alla “parola”, che appare spesso davvero usurata e consunta, difficile da rianimare.
Cercare di instaurare una relazione “ironica” tra scena e pubblico significa tenere in conto contemporaneamente più livelli di significato; se è vero che l’ironia – semplificando al massimo – è l’affermazione di una cosa per intenderne un’altra (solitamente il suo opposto), il contratto con lo spettatore andrà sempre disegnato in maniera sottilmente ambigua. Guardiamo a cosa accade nella performance della Senatore, ad esempio. A quale livello qui dobbiamo attenerci o, in altre parole, che cosa si sta dicendo su quella scena?  Non si tratta certo di far la morale o di dare dei “messaggi”, ma qualcosa di piuttosto chiaro viene “detto”, e ciò avviene tramite il linguaggio del corpo. Le due danzatrici danno vita nell’arco di pochi minuti e con una certa grazia a una partitura di gesti che paiono continuamente giocare sulla sorpresa. Sembra quasi che le danzatrici si sorprendano dei propri gesti, come “costrette” a eseguire una coreografia, senza aver però la certezza di come questo gioco andrà a finire. Basso e Senatore, con la medesima parrucca e gli stessi abitini, si presentano come due “sorelline”, o addirittura due cloni, in gara forse per il raggiungimento del fantomatico modello comune. Una certa idea di danza, una certa estetica, un certo modo di ammiccare al pubblico funzionano da modello omologato e omologante al quale inavvertitamente si prova a resistere (da parte delle performer, ma anche del pubblico). L’errore e alcune emozioni umane (l’imbarazzo, il pudore, la sgangheratezza) diventano allora gli antidoti a degli stereotipi che imprigionano il corpo, lo bloccano e lo normalizzano. In questa dinamica la coreografia della Senatore prova a costruire non delle vere e proprie narrazioni, ma delle micro-storie, mirco-climi emotivi, riconducibili a un universo umano sghembo e in difficoltà, ma sostanzialmente “simpatico”. Perché simpatico? Perché passibile di identificazione: dietro alla perfezione, fredda e meccanica, del modello si compie lo scarto scivoloso dell’ironia che nasconde e rivela a tratti l’ombra della normalità. Una normalità, che si affanna, più fragile e più calda, e che alle prese con la sua complicata e viva esistenza, può mostrarsi come “eccezione” e finalmente riguardarci.
Che tipo di evoluzione può avere questa dinamica, questa applicazione così corretta di un dispositivo retorico molto semplice? Le strade sono ovviamente tante e inaspettate, e tante le possibili derive, ma dal dialogo con la Senatore emerge un’interessante necessità di continuare a costruire spessore intorno a queste “figure”, forse necessariamente nate in una sorta di scarto bidimensionale, ad andare più a fondo nel ritrarre la “varia umanità”; tramite il linguaggio della danza raccontare i tic, le smorfie, le irregolarità dell’essere umano. È forse proprio in questo scivolamento di piani, dal lineare al franto, che quella ironica diventa una possibile chiave per scandagliare così anche il versante dell’ombra, affondare i propri passi nel “grottesco” – oggi poco e male frequentato dal teatro – per accettare l’enigma della “mostruosa normalità”, quella delle nostre facce e dei nostri corpi.

Rodolfo Sacchettini
19 novembre 2010



LE RIFLESSIONI DI DARIO AGGIOLI/TEATRO FORSENNATO

Essere chiari, dare una risposta chiara, dover chiarire il proprio pensiero...
Per ogni domanda c'è una risposta? E' una sola?
La contraddizione è un problema o un valore? Una forza o una debolezza?
Per me rispondere è una violenza su me e su chi porge la domanda.
Durante l'incontro ho dato risposte chiare? Ho trovato una modalità
per spiegare il mio lavoro?
Forse il mio lavoro è non essere chiaro.
Io cerco una domanda chiara.
La domanda è un motore, una forza propulsiva, è un approccio erotico.
La risposta è un muro, la morte, è pornografia.
Il nostro teatro è erotico, non pornografico. Non cerchiamo il nuovo,
la risposta a tutto, non cerchiamo lo spettacolo perfetto.
Mio nonno, il più grande artista che io abbia mai conosciuto, quando
mi iniziò al disegno mi disse: "chi cerca la perfezione non è un
artista, è un morto de sonno! Lo capirai, disegna che lo capirai...".
Chi dalle domande cerca una risposta ha un approccio pornografico.
Vuole toccare la verità, tastarla, penetrarla.
Io invece voglio sedurla, ingannarla, ingannarmi, innamorarmi, desiderarla.
Quale è il metodo di Teatro Forsennato?
Un metodo, una metologia, un applicazione identica per ogni spettacolo
o per ogni spiegazione è pornografia!
Qual è il punto fermo di ogni nostro lavoro? Lo spettatore, lo spazio,
il momento: questi punti sono sfuggenti? Ogni volta sono diversi? Non
ci danno certezze?
Noi cerchiamo ogni volta come innamorarci di una storia, come sedurre
uno spettatore, come godere insieme.
Vogliamo accompagnare lo spettatore, camminare accanto a lui, non
manipolarlo o guidarlo. Chiedere a lui dove vuole andare...
Non chiedetemi di essere chiaro, non posso esserlo, non so esserlo,
non voglio esserlo.
Chi cerca la strada? Chi sa dove si trova o chi si è perso?

Spero di non essere stato chiaro
Dario Aggioli - Teatro Forsennato
8 novembre 2010




LE RIFLESSIONI CRITICHE DI MASSIMO MARINO

 

(none)



Guardare l'altro teatro 

Quando si parla di critica, in ambienti teatrali si esprime spesso il compianto per un caro estinto, per un’attività rassicurante del bel tempo andato, che una volta c’era e ora non c’è più. Era un ornamento di lusso, uno spazio del pensiero applicato all’esperienza, un momento di confronto per gli artisti e per il pubblico, cancellato dalla marea montante della società dello spettacolo, che educa a non distinguere, a evitare di scegliere, di analizzare, di giudicare, e invita solo a consumare. L’intellettuale – si ripete – si è tramutato in funzionario e in addetto stampa, in propagandista, in una voce confusa tra mille altre che prendono la parola magari tutte insieme, senza caratteristiche spiccate e perciò sostanzialmente inutile.
Non credo che le cose stiano così. È vero: l’atteggiamento critico in genere oggi è evitato, eluso, sanzionato; si preferisce adagiarsi nel flusso delle correnti dominanti. Eppure segni di rifiuto a farsi cannibalizzare esistono e sono vivissimi, grazie anche alle nuove possibilità di internet, grazie a un teatro che a sua volta si interroga in modo continuo, ponendo il confronto come una delle necessità ineliminabili. Forse è cambiato il ruolo, sono mutati i supporti, la vecchia aristocratica professione del bello scrivere si è democratizzata, con l’inevitabile contraccolpo di perdere alcune prerogative, di smarrire certi punti fermi.
Andiamo, per esempio, a Roma, tra le periferie in movimento di Tor Vergata con la sua Università Roma 2 e la nuova zona di ritrovo, vita sociale, avventure imprenditoriali e intellettuali del Pigneto, sulla Casilina. In uno spazio del Pigneto nuovo, in via De Agostini, in un ex magazzino di non molti metri quadrati, ha sede l’associazione Kataklisma, fondata da Elvira Frosini, una danzatrice che deborda dai codici coreografici per spettacoli dove anche la parola sostiene penetranti viaggi in mitologie contemporanee. Nel 2008 aveva organizzato Uovo critico. Quest’anno è riuscita a rimettere in piedi la rassegna col il nome di Novo critico. La formula mette a confronto un critico con un artista o un gruppo di teatro o danza che presenta un lavoro in divenire o una sintesi del proprio percorso. Entrambi i contendenti si muovono su terreni laterali rispetto a quelli ufficiali: i critici raramente scrivono su giornali, molto più di frequente collaborano a riviste, siti internet, blog, esperienze indipendenti come “Altre Velocità” o “Krapp's Last Post” (che documenta l’iniziativa); gli artisti praticano territori di sperimentazione variamente configurati.
Partecipa un pubblico di studenti e di appassionati e altri gruppi che stanno elaborando strumenti di impegno artistico o critico originale. Intorno a uno o più frammenti di spettacolo già fatto o da farsi si innesca un’analisi, un discorso, un dibattito che spazia dal commento all’interrogazione sulla prospettiva di creazione, alla discussione dei temi evocati. Soprattutto è un dialogo tra critico, artista e pubblico che rappresenta effettivamente un nuovo modo di fare critica. Non un giudizio frontale, definitivo per uno spettacolo concluso, ma una seduta analitica (di analisi teatrale? sociale? psicanalitica?) di materiali in via di definizione, che produrrà un risultato originale attraverso il confronto di esperienze, visioni, idee, possibilità.
I contendenti sono stati finora Daniele Timpano e Nicola Viesti, Andrea Cosentino e Claudia Cannella, Santasangre e Antonio Audino, Alessandra Sini e Rossella Battisti, Teatro Forsennato e Florinda Nardi, Gaetano Ventriglia con Silvia Gabbuggino e Simone Pacini; prossimamente saranno Daria Deflorian e Katia Ippaso, Ambra Senatore e Rodolfo Sacchettini, Accademia degli Artefatti e Andrea Porcheddu.

presepe.jpg

Digerseltz

Anche chi scrive ha fatto un incontro, con Elvira Frosini, che ha presentato un assolo intitolato Digerseltz. Una quindicina di minuti, con l’attrice-performer separata dal pubblico dalla riproduzione bidimensionale di alcune figurine di un presepe napoletano, un monologo (almeno in questa fase) sul cibo, una asciutta incisiva presenza fisica e un fiume di parole che riprendono con cifra ironica stereotipi su quell’attività primaria, sociale, personale, collettiva che è il mangiare. Il tema è ambizioso e di questo si è parlato alla fine, notando anche come l’autrice stia passando sempre più dal teatro danza a spettacoli abitati dall’esigenza di comunicare verbalmente.
ELVIRA FROSINI DIGER PRIMO ST 1.jpgSembra quasi divorata dalle parole sul cibo, spesso cliché, che la parlano, la dominano, la guidano in rituali sociali e mitologici dove appaiono le figure di Saturno che mangia i propri figli, una bionda Marilyn in preda a parole, canzoni, uomini, fino a un’apertura verso il pubblico aprendo la barriera del presepe, metafore di ganasce sempre in movimento, che scambiano il piacere con il possesso. Parole, parole, parole, per sostituire atti dei quali abbiamo perso la necessità, l’urgenza. Sulla sfondo una torta con candelina e un agnellino di peluche, uno dei giocattoli che costellano sempre le visioni pop di questa attrice-autrice dal segno essenziale ed efficace come un sacrificio. Lo spettacolo ripercorrerà i rituali della festa di compleanno, il banchetto, l’orgia, il convivio funebre, indagando le funzioni di un cibo che invade sempre di più la nostra società vorace o anoressica.
Durante l’incontro, analizzando questi iniziali appunti che si sono visti, si è parlato di ciò che ancora non c’è, di come l’attrice vorrebbe introdurre due altri attori, uomini, di come questo inserto cambierebbe tutto portandolo verso confini inaspettati. Uno spettacolo da farsi, che si offre in pasto agli sguardi con domande in questa fase ancora irrisolte, cercando nell’incontro suggestioni in cambio di quelle offerte, provando a rappresentare un percorso e un modo di lavorare attraverso questa stessa aperta interrogazione.
Immagine di anteprima per ELVIRA FROSINI DIGER PRIMO ST 6.jpg
Un'ultima nota: nel pubblico c'erano molti critici giovani e di mezza età. Il dibattito è stato partecipato, in certi momenti acceso: ho avuto l'impressione di un momento molto vivo della riflessione sul teatro a Roma.
Al progetto di Novo critico partecipano anche il Dass dell’Università La Sapienza, Radio 3, la Fondazione Romaeuropa, l'assessorato alle Politiche educative, scolastiche, della famiglia e della gioventù del Comune di Roma, l'ufficio Politiche della gioventù. Un osservatorio formato da studenti delle due università, coordinato da Roberto Ciancarelli e Donatella Orecchia, segue gli incontri.

ELVIRA FROSINI DIGER PRIMO ST 5.jpg

Massimo Marino,Controscene
6 novembre 2010





 


LE RIFLESSIONI CRITICHE DI CLAUDIA CANNELLA

Esercizi di critica su “Esercizi di rianimazione” - Non uno spettacolo, e questo si sapeva, ma neanche uno studio si può definire “Esercizi di rianimazione”, presentato da Andrea Cosentino a Novo Critico 2010. Sembra più un check sugli strumenti che vorrà utilizzare per il successivo lavoro, verificandone l’efficacia nella relazione col pubblico. Ritrovo l’intelligenza bizzarra e i segni tipici del teatro di Andrea (da poco affiancato da Francesco Picciotti): l’importanza degli oggetti e dell’interazione fra loro e con gli spettatori, il pupazzo di Artaud (un alter ego?), i meccanismi della clownerie, il disinteresse verso un racconto lineare (ma attenzione: non verso un’idea più generale di narrazione, checché ne dica lui!) a vantaggio di una sorta di blob situazionista, le citazioni (Buster Keaton) e, ahimè, le autocitazioni... Ho visto un’esercitazione con oggetti messi in relazione fra loro in modo più surreale del solito, ma non ancora un’idea di partenza da sviluppare, un tema possibile che faccia da spina dorsale allo spettacolo prossimo venturo, almeno nella seconda parte, quella mostrata all’interno dello spazio di Kataklisma Teatro. La prima parte, invece, realizzata sul marciapiede antistante, è già qualcosa con una forma più definita. Francesco, seduto per terra, anima il pupazzo di Artaud, mendicante rabbioso che, con voce registrata, chiede denaro in cambio della sua arte. Molto attuale, crudele, politico. Sarebbe bello creare squadre di performer che lo vanno a fare tutti i giorni davanti a teatri e uffici ministeriali! Non so se si possa stabilire un nesso tra le due parti del lavoro di Cosentino-Picciotti. Lo scopriremo alla prossima puntata. Ora tocca ad Andrea (e a Francesco). Buon lavoro!

All’Eliseo, all’Eliseo! - Mentre guardavo il lavoro di Andrea, osservavo anche le reazioni del pubblico: molti ridevano, alcuni in modo eccessivo, quasi anticipando le gag. Ho pensato: vabbè, siamo in famiglia... era netta la percezione di un sottotesto, nella relazione artista-pubblico, che affondava le sue radici in consuetudini e rapporti non occasionali. Troppo facile!, ho pensato perfidamente. Perché non esporre il proprio lavoro anche di fronte a spettatori eterogenei, non solo fan? Da qui il tormentone della serata: come reagirebbe il pubblico del Teatro Eliseo di fronte a tutto ciò? Ovviamente era una provocazione. Ma anche un invito. Dal momento che il lavoro di Cosentino si basa molto, addirittura si modella sull’interazione col pubblico, perché non cimentarsi con spettatori diversi dagli amici e dagli ammiratori? Credo che, soprattutto in questa fase di studio e sperimentazione, proprio dalle situazioni meno prevedibili potrebbero venir fuori materiali interessanti da metabolizzare. E anche a me, come ad Andrea, «non piace l’omogeneità culturale che esiste tra il teatro, in special modo quello di ricerca, e i suoi spettatori. Non mi piace quella complicità predeterminata, come non mi piace in generale l’arte targettizzata» (A. Cosentino, “L’apocalisse comica”, Roma, 2008, Editoria & Spettacolo).

Meglio dormirci sopra - Mi piace l’idea di tirar su una saracinesca e di entrare in un piccolo teatro. Mi piace che si riempia in modo disordinato, come le scarpe lasciate ammassate nell’atrio. Non ero mai stata ospite di Kataklisma Teatro, né mi era mai capitato di dover improvvisare dei pensieri “critici” a caldo, di fronte a un pubblico, dopo aver visto uno spettacolo, o meglio un frammento, un’ipotesi di lavoro... quasi non amo i commenti (pseudo) critici all’uscita di un teatro con gli amici, figuriamoci con spettatori sconosciuti e dopo quella manciata di minuti trascorsi insieme a vedere un misterioso embrione di qualcosa che sarà. Ma proprio per questo ero curiosa di farlo, di mettermi alla prova, di esplorare luoghi e persone poco o per nulla conosciute. Per questa ragione ho accettato, con divertita apprensione, l’invito di Elvira e di Daniele, istintivamente sicura, conoscendoli, che non sarebbe stata una cosa tipo “segue dibattito” di fantozziana-morettiana memoria. In effetti il confronto immediato con gli artisti e col pubblico è stato interessante e vivo, ma più per quello che ho potuto ascoltare che per quel che ho potuto dire. Resto infatti convinta di una mia vecchia idea, fisicamente testata sulla mia pelle: meglio dormirci sopra! Nel senso che preferisco lasciar sedimentare pensieri e riflessioni prima di indossare i panni della critichessa. O forse anche vedere prima il lavoro, per rivederlo poi insieme al pubblico e parlarne tutti insieme. Gli artisti magari lavorano mesi, e poi arriviamo noi critici a liquidare la pratica in poche righe o parole approssimative. Nel bene o nel male. Questo mi fa sentire inadeguata, a volte poco “rispettosa” del lavoro altrui, e continua a non piacermi.

Claudia Cannella


LE RIFLESSIONI CRITICHE DI NICOLA VIESTI  

Già dal titolo - “Aldo Morto, tragedia” - il nuovo lavoro di Daniele Timpano suppone una qualche intimità con la figura dello statista democristiano, una mancanza di “timore sacro” per l'argomento trattato che in maniera netta – e questo nell'incontro romano veniva fuori con estrema evidenza – marcava uno scarto generazionale. Scarto che faceva insorgere non pochi equivoci sul valore “politico” dell'operazione rifiutato quasi con estremo sospetto dal pubblico non ancora trentenne. Pubblico che inseriva Moro nella galleria di personaggi precedentemente trattati da Timpano come Mussolini e Mazzini, storicamente abbastanza lontani e quasi immuni da una precisa scelta tra “sinistra” e “destra” per il performer e per il suo pubblico. In realtà così non è perché argomenti simili sono necessariamente e assolutamente politici e non si tratta, ovviamente, di “sinistra” e “destra”, ma di lettura storica fatta con occhio scaltro e distante che l'artista compie in forma estremamente originale e stimolante per suscitare ampio dibattito. “Dux in scatola” ha irritato non pochi che vi vedevano quasi una specie di esaltazione del fascismo nel far parlare un corpo senza vita ; ma quel corpo – il corpo del Duce – non poteva che raccontare la sua verità e la verità di un corpo massacrato è quella che è, fatta di offese alla carne che Timpano si guarda bene di omettere come non nasconde tutto un armamentario di cianfrusaglia fascista che sopravvive ancora oggi. E che dire ancora di un corpo, quello di Mazzini nel “Risorgimento Pop”, che svela montagne di retorica e che illumina un presente abbietto che – orrore! - ci sembra figlio quasi diretto dei “Padri della Patria”. Con Moro l'operazione mi sembra ancora più ambigua e pericolosa perché la differenza generazionale non è così marcata e moltissimi ancora ricordano i dubbi scatenati dal terribile periodo del suo sequestro e della sua esecuzione, entrambi iconizzati, e non a torto, in quanto l'evento è di quelli cardine per il destino di una nazione – quasi un nostro attentato alle Torri Gemelle – e sicuramente ne ha condizionato le non invidiabili sorti attuali. In una primissima stesura, un frammento quasi, “Aldo Morto” era di una spietatezza e spregiudicatezza assolute, tale che dopo la lettura inviai una mail a Daniele dicendogli che questa volta doveva prepararsi ad un soggiorno nelle patrie galere. Lui si augurava che non volessi fargli mancare le arance. Nella successiva elaborazione per “Novo Critico” il testo si è completamente trasformato con la bella intuizione di inserire il personaggio del figlio che ricorda e che è tutt'uno con il performer. E la violenza precedente si è trasformata completamente, lasciando spazio ad una intimità quasi affettuosa con un personaggio fotografato nella vita e nei sentimenti. E' successo che alcuni sono rimasti troppo scossi dai primi appunti ma anche che Daniele, man mano che approfondisce la figura di Moro, ne sta rimanendo colpito, sta mettendo in crisi precedenti certezze. Vedremo dove tutto ciò lo porterà.


Novo Critico” mi sembra un modo costruttivo e intelligente di mettere in relazione artista, opera, critica e spettatori. Discutere su un lavoro in fieri è utile a tutti; all'artista  che verifica l'efficacia delle sue idee, al critico che  interviene su frammenti in divenire azzardando probabili scenari e al pubblico che cerca di andare oltre una passività istituzionalizzata. Devo confessare che mi aspettavo – data una partecipazione prevalentemente di addetti ai lavori – un qualche match tra pubblico e critico. Cosa che mi è stata risparmiata per il tempo tiranno e per il sostanziale disinteresse degli spettatori verso una cosa del genere. Sono stati forse troppo buoni, o troppo scafati. Insomma non capita spesso di avere sotto mano un critico con la possibilità di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Va bene scambiarsi opinioni sul lavoro dell'artista della settimana ma non posso pensare che il rapporto con la critica fili così liscio. Qualcosa da recriminare dovrebbe – e c'è – sempre. Lo dico non per scatenare la rissa o per attivare una specie di sadomasochismo reciproco ma perché sono fermamente convinto che parlare con gli artisti, e con il pubblico, faccia benissimo proprio in primis al critico, a volte troppo protetto, troppo distante, troppo legato al “prodotto finito” e quasi mai conscio del lavoro, delle contraddizioni o delle sicurezze che lo hanno generato. E “Novo Critico” penso sia il luogo ideale per una verifica di questo genere. D'altronde  l' autorevolezza della critica non risiede in una sua  incontestabile infallibilità ma nella possibilità di affermare proprio un punto di vista, parziale, a volte fallibile, ma con l'imperativo di essere sempre suffragato da motivazioni quanto mai chiare. La rivista “Hystrio” qualche tempo fa pubblicava per alcuni spettacoli due pezzi, uno positivo e uno negativo : una bella palestra per confrontarsi con “l'altro” e per i lettori la possibilità di chiarirsi – o confondere ancor più – le idee. Va da sé che per l'artista la critica giusta era sempre quella positiva.
Nicola Viesti
19 ottobre 2010