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sabato 5 febbraio 2011

OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO - Decimo incontro

Decimo incontro - 26, 27, 28 novembre 2010

Novo Critico 2010. "Tre giorni per One Day"
accademia degli artefatti incontra Andrea Porcheddu





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Lo studio proposto dall’Accademia degli Artefatti al Kollatino Underground è ciò che rimane di un progetto da presentare al Roma Europa Festival nel 2008. Progetto fallito per abbandoni produttivi. Di questo abbandono lo studio presenta tutti i sintomi: anaffettività verso gli oggetti di scena, barbe incolte e volti solcati da profonde occhiaie. Si tratta di uno studio presentato a luci accese con copioni alla mano e attori che vanno e vengono dalla platea alla scena. La forma è subito convincente perché si presta in maniera efficace al contesto in cui viene proposta: l’Accademia degli Artefatti ci offre materiale nudo, pronto ad essere vivisezionato, studiato, analizzato.
Lo studio si presenta sotto forma di episodi. Il primo episodio o della donna-pesce è attraversato da originali riflessioni sulla forza dirompente della visione laterale e da chiari riferimenti a certi panorami inquietanti della cinematografia degli ani ’70-’80: Funny Games di Haneke e Strade perdute di Lynch. In un certo senso la dimensione onirica, dissacrante e inquietante dei frammenti citati durante il primo episodio, si presta bene all’umore dello studio presentato dall’Accademia degli Artefatti: i dialoghi degenerano sempre in sit-com paradossali, costellate di nonsense, di perdite momentanee di memoria, di inversioni dei ruoli. Il gioco è accattivante, per certi versi divertente, ma in qualche modo rallentato e reso prolisso dalla presenza dei copioni in scena: la lettura degli attori dilata i tempi della rappresentazione creando spazi vuoti che i performers riempiono sovraccaricando il repertorio gestuale ed espressivo di ornamentazioni, abbellimenti, modulazioni, fino a dare vita a perfette caricature di se stessi.
La seconda parte dello studio si apre col dirompente ingresso di un attore nudo dalla cintola in giù, interessante pretesto per indagare le dinamiche dell’attenzione, che scivola purtroppo in un più scontato gioco di doppi sensi sulle esigue dimensioni del membro. Peccato.
Il terzo episodio o dell’interrogatorio risulta molto interessante grazie alle evidenti capacità dei due attori che si muovono in sincronia perfetta lungo le traiettorie del testo: movimenti, toni, espressioni, tengono viva l’attenzione che altrimenti si perderebbe seguendo le linee confuse di un dialogo che procede a stento sul terreno scivoloso dell’assurdo.
L’ultimo episodio o dei pacchi, pur rievocando atmosfere beckettiane –i due protagonisti dell’episodio sembrano due moderni Vladimiro ed Estragone nell’attesa attuale di un significato che sfugge- non riesce a staccarsi dall’impianto teorico-demagogico sul concetto di libertà e  democrazia, lasciando inattuate le possibilità di una nuova clownerie di acrobazie del quotidiano.

Elena D'Angelo
Osservatorio critico Roma1

giovedì 6 gennaio 2011

RASSEGNA STAMPA - RIFLESSIONI


LA CRITICA CHE NON CRITICA
di Alfio Petrini

Faccio alcune riflessioni non esaustive sul teatro addormentato nel bosco, non avendo il potere magico di ridestarlo. Sonno della ragione. Sonno del corpo-mente che si fa azione. Sonno del pensiero che si fa sangue e del sangue che si fa pensiero. Il teatro non sfugge a questa condizione, perché è un tassello della grande macchina del paese reale. A questa condizione non sfugge neppure il lavoro critico.

In tempi così difficili la bella addormentata trasmigra, lascia la favola e si annida nella realtà quotidiana della polis che non c’è. Quindi anche nel teatro. Se da verbo non si fa carne, non si fa vissuto, non si fa movimento del pensiero e del desiderio, non si fa presente che ipoteca il futuro, il teatro finisce per generare ripetizione, rinuncia, difesa dello status quo, servitù politica e culturale a beneficio del potente o dell’intoccabile di turno. L’uomo di teatro - ma non solo -, crede di essere furbo o di doversi fare furbo, di essere fortunato o sfortunato secondo i casi, e non si accorge di essere caduto in catalessi. Così la stasi somiglia al movimento, la vita alla morte. Così la cultura lobbistica, la protezione politica, l’inazione, l’eliminazione del conflitto e la subordinazione dell’arte alla politica dettano le regole e producono quel mercato che è dichiarato libero, ma che libero non è. Altro che meritocrazia!

Il sonno è della drammaturgia esangue, sociologica, ideologica e materialistica, sopraffatta dall’informazione, descrittiva, mimetica. Copia e non trasforma. Pompa sentimenti. Tratta il personaggio non come un lessema, ma come un organismo vivente. Pretende di cambiare il mondo. Insegue il male per suggerire il bene, ignorando che nessun uomo è esente dal male perché lo porta con sé. Eh, già, il male sta sempre fuori di noi! I cattivi, gli imbecilli e gli incompetenti sono sempre gli altri! Bellezza estetica e buone intenzioni non salvano il mondo. Buonismo e moralismo sono la negazione dell’arte, della informazione, della produzione di coscienza critica.

Il sonno è la condizione di molta scrittura scenica che non sa entrare nella mente dello spettatore - scuoterlo, provocarlo, indurlo all’attività -, anche per effetto della paura di sbagliare, della precarietà delle fortune improvvisate, delle riforme annunciate a dritta e a manca e mai realizzate. È la condizione che attraversa le centinaia di scuole di teatro e le pagine dei manuali impegnati a formare e informare disoccupati che sognano di ‘esprimersi’, alimentando un mercato fittizio che risponde a pratiche seduttive e corrosive, in un momento storico in cui bisognerebbe avere la possibilità d’imparare a disimparare e di formare gli uomini, non gli attori, i registi o i critici. È la condizione in cui si trova la critica che non critica, perché non crede più in se stessa, perché si è rinchiusa in asfittici recinti, perché si limita a fare raccontini o a confezionare cronache cultural-mondane. E’ la condizione in cui versa la classe politica, che non ha più etica, che invece di cambiare se stessa, pensa a cambiare i cittadini, dimostrando di essere fuori posto e non dedita al lavoro che dovrebbe fare. Un male grave da cui discendono altri mali.

Siamo in piena barbarie.

Ma attenzione a non ricorrere al vezzo e al vizio dei buoni sentimenti e del bene trionfante sul male. Si può venire fuori dalla barbarie a condizione che sia compresa e non demonizzata, studiata e non condannata con sentenza passata in giudicato, accettata e non rifiutata a priori come cosa che non ci riguarda. Per andare oltre la barbarie bisogna essere barbarici. Bisogna che ciascuno assuma la barbarie in se stesso. Insomma, possiamo superarla, se pensiamo preliminarmente che non sia estranea alla nostra persona, che sia uno dei mondi possibili che ci appartengono - assunto nel vasto mondo interiore -, anche se nella vita quotidiana non abbiamo mai compiuto atti barbarici. Insomma, i barbari siamo noi, sfrenati, eccessivi e licenziosi. Non a-morali, ma immorali. Capaci di confusioni atroci, di errori e di nefandezze infinite, ma anche di visioni, estasi e incantesimi per i quali, però, non proviamo l’ebbrezza dei romantici. Chi si mostra in odore di santità è chiamato progressista, moderno e antibarbaro. Chi ammette di avere la cattiveria in corpo è definito antimoderno, reazionario e barbarico. Il primo tende a vincere sull’altro, il secondo tende a cambiare se stesso. Evviva la barbarie.

Sono convinto che se me ne faccio carico, posso ipotizzare di uscire dall’imbarbarimento, un giorno, con qualcosa di nuovo, perché solo dalla barbarie si può uscire con un atto concreto di civiltà e, perché no, di bellezza. Se questo vale, in tutto o in parte, nella vita, figuriamoci nell’arte del teatro e nel lavoro critico. Dunque, la critica non critica per motivi sociali, ai quali ho fatto cenno, ma anche per carenze culturali e tecniche.

Non intendo in questa sede affrontare le questioni di carattere tecnico - legate al sapere e al non-sapere -, anche se credo che esistano e che interessino non solo la giovane critica, ma anche quella che avrebbe dovuto essere alternativa ai ‘baroni’. È un’impresa ardua destrutturare uno spettacolo e per farlo in modo originale è necessario andare al di là dei cliché della tradizione immobile: occorrono conoscenze e abilità assai complesse, meglio se suffragate da esperienze consumate accanto ai maestri riconosciuti del fare teatro.

Per fortuna non esiste un manuale del buon critico. Il lavoro critico non ha canoni da rispettare. Mi sembra tuttavia che abbia ragione Carla Benedetti (citata da Andrea Porcheddu nel suo bel libro Questo fantasma, il critico a teatro) quando sostiene che bisogna “riaprire le porte al pensiero, porre domande a tutto campo, nominare conflitti e lacerazioni, esplorare, distinguere, approfondire”. Se è vero che la separatezza e l’autoreferenzialità sono un tradimento del lavoro critico, bisogna che la critica si riappropri delle armi che gli sono proprie, ritrovi la funzione sociale nel rendere giustizia al pensiero, lavori sulla memoria e con la memoria per scavare, portare alla luce, cogliere l’invisibile, carpire e capire l’immagine, per destinare al futuro il lavoro fatto sul passato, per separare l’autentico dall’inautentico. Occorre che si liberi dal testo e dallo spettacolo per ritrovare il giudizio critico al testo e allo spettacolo, che sia sereno, non affrettato e legato al velo della superficie. Che si liberi dalle oscillazioni dei gusti e dei disgusti contingenti, dalle predilezioni estetiche e dalla partigianeria ideologica, dalla corsa al mestiere come improvvisazione post-laurea (prima) e dalla metodica della rendicontazione afferente alla cronaca teatrale più che al lavoro critico (dopo). Che si liberi “dalla recensione - scrive Porcheddu - per ritrovare la recensione liberata” da censure e autocensure, riserve mentali e impacciati equilibrismi. Che si liberi, aggiungo, dal vincolo assoluto di oggettività, tenendo in buona considerazione anche il livello della soggettività, se è vero – com’è vero -, che è oggettivamente impossibile raccontare uno spettacolo di teatro. In tal senso penso, paradossalmente, che il miglior modo per fare la critica di uno spettacolo sia di allontanarsene il più possibile con la speranza di poterlo almeno sfiorare. Ripensarlo e rimembrarlo nei dettagli vuol dire proprio lavorare sulla memoria e con la memoria dello spettacolo per destinare al futuro uno scritto al quale riconoscere senza riserve un valore letterario autonomo rispetto al testo e allo spettacolo. Dico un valore letterario autonomo.

La conclusione non può che essere inconcludente. La chiacchiera è assordante, il silenzio è vuoto, la dismisura è catalettica. Tuttavia, se è vero che l’uomo morto nasconde fermenti di vita, quelli concernenti la decomposizione del corpo; se è vero che ogni processo degenerativo implica un processo rigenerativo, è ragionevole pensare che il sonno potrà generare il risveglio del lavoro critico addormentato nel bosco. I fermenti ci sono. Mancano le condizioni di fondo del buongoverno, il credito sociale, alcune premesse necessarie a disegnare nuove prospettive di lavoro e la voglia di sentirsi parte di una “comunità”, quella di cui parla Katia Ippaso.

Chi avrà il coraggio di affrontare lo stato d’assedio e di rimettersi in discussione? Chi avrà il coraggio di entrare nel merito delle strategie ministeriali tese ad affermare che il teatro è lo spettacolo d’intrattenimento? Chi sarà disponibile a fare la radiografia del dirigismo distributivo, dei covacci del potere clientelare, delle vecchie e nuove rendite di posizione? Chi chiuderà la forbice abissale che si è aperta tra interessi legittimi e interessi illegittimi, tra il pensare altro e il vincere sull’altro? Quale mondo ha preso il sopravvento dentro di noi? Quale mondo possiamo raccontare, se nutriamo un mondo di morte? Quale energia siamo in grado di bruciare, quale scintilla possiamo generare, se il nostro corpo-mente è apparentemente vivo? Come sarà possibile andare al di là dei propri limiti e delle proprie idee, pensare altro altrove altrimenti, attraversare con paura e con coraggio allo stesso tempo i luoghi di senso? Come sarà possibile generare la follia luminosa di cui ha bisogno il mondo? Come sarà possibile dimenticare questo mondo, quando sarà necessario dimenticarlo, e versare lacrime dopo averlo dimenticato?

Parlare di teatro vuol dire parlare del mondo.

A chi dobbiamo delegare la tutela della nostra immagine e della nostra operatività? A nessuno. Di certo, non alla politica, che insegue - quando va bene -, i bisogni degli uomini, invece di prevenirli. Figuriamoci se può risolvere i problemi di una piccola casta, che appare senza senso in una società votata allo sviluppo che non coincide con il progresso sociale. Nessun principe potrà salvarci. Non c’è bisogno d’interposta persona, tanto meno di maghi o di cavalieri erranti, per ridare concretezza alla nostra utopia. All’orizzonte non vedo un uomo capace di farlo. Anche se ci fosse, non gli delegherei nulla del mio lavoro e della mia vita.

Forse bisognerebbe cominciare dal ‘basso’, dalla ‘base’, come si diceva una volta, dal nostro lavoro quotidiano, con coraggio, con determinazione, con la forza che potrebbe derivare dall’essere parte di una “comunità”. “Non sarebbe bello contribuire a fabbricare un nuovo immaginario, presentandoci l’uno all’altro come comunità?”, si chiede la Ippaso nella sua lettera aperta. Sarebbe bellissimo. A condizione che si prenda atto che la critica subisce sia il danno di una forte regressione sociale e culturale del paese sia lo svantaggio dello stato catalettico in cui giace da molto tempo e che la rende estranea ai problemi del teatro e della comunità nazionale. Nessuno può isolarsi. Nessuno può permettersi di sentirsi migliore degli altri, ma nessuno può concedersi il lusso di considerare intoccabili i “baroni che ci hanno mangiati vivi”. I baroni ci hanno mangiati vivi anche perché ci siamo fatti mangiare vivi. Non ripetiamo l’errore e creiamo un coordinamento dei critici. Dalle domande possiamo, di certo, cominciare o ricominciare. Qualunque perdita è buona per ricominciare daccapo, meno la perdita della parola. A essa sono affidate dignità, sicurezza e integrità. Solo in condizione di non precarietà si può ascoltare la vita. Sogni, sacrifici, deliri, dunque, e impudicizie ci vogliono. Purché siano incontenibili.


Alfio Petrini
Gennaio 2011

lunedì 20 dicembre 2010

RASSEGNA STAMPA : DECIMO INCONTRO - da Teatroecritica.it

Epica, Etica e Pop – manovre di uscita dalla post-modernità tra letteratura e teatro.


A fine novembre, al Kollatino di Roma, in occasione dell’ultimo appuntamento di Novo Critico, l’Accademia degli Artefatti ha presentato in lettura alcune scene tratte da «One Day», lo spettacolo di 24 ore che doveva debuttare nel 2008 al festival Romaeuropa ma che, a causa di problemi produttivi, non ha mai visto la luce. Nonostante non sia stato portato a termine, per il regista Fabrizio Arcuri «One Day» resta il miglior pezzo di teatro realizzato dalla sua compagnia, perché era “nato per testimoniare l’assoluta inadeguatezza del sistema” e coerentemente è stato “abortito per mano di questa inadeguatezza”. In effetti «One Day» aleggia come un fantasma sulla attuale situazione di dismissione di spazi e finanziamenti che sta minando il sistema teatrale italiano, perché ne è stato forse il primo concreto campanello d’allarme, e gode per tanto oggi di una luce quasi “mitica”.
È inutile cimentarsi in una recensione di uno spettacolo mai andato in scena, di cui sono state presentate solo alcune parti e per di più in lettura. Sarebbe una restituzione necessariamente parziale, visto che «One Day» è un’opera-mondo estremamente complessa, che avrebbe dovuto ospitare al suo interno altri spettacoli, e che proponeva diversi piani di realtà e filoni di storia in un intreccio elaboratissimo: dal rapimento di un bambino rumeno alla parabola del pupazzo Dolly Bell che raffigura un coniglio ceceno (ma Dolly Bell è anche tante altre cose…), dalle performance live dei Kiss – il gruppo preferito del bambino, ma anche l’icona esemplare della riproducibilità pop, qui accostata addirittura all’opera di Pechino – alle avventure del pornoattore Tito, passando per le maglie noir di un affare di traffico d’organi. E questo è solo un assaggio della drammaturgia elaborata da Magdalena Barile a partire dalle idee di Fabrizio Arcuri e dalle improvvisazioni dei suoi attori – oggi raccolta in un libro uscito di recente per Titivillus.
Tuttavia l’operazione di «One Day» può fornire uno spunto di riflessione interessante per leggere una tendenza che si sta delineando nel teatro internazionale. «One Day», come «Spara/Trova il tesoro/Ripeti» – i diciassette pezzi scritti dal drammaturgo inglese Mark Ravenhill e messi in scena sempre da Arcuri – o come la teatronovela di Rafael Spregelburd «Bizarra», la cui versione italiana realizzata da Manuela Cherubini è attualmente in scena all’Angelo Mai di Roma, sono tutti esempi di utilizzo di una forma insolita per il teatro: il ciclo1. Insolita perché la perenne crisi in cui versa il teatro ci ha abituati a spettacoli sempre più piccoli, con pochi attori quando non uno solo, con scenografie ridotte o inesistenti, insomma un teatro “tascabile” da poter spostare facilmente e a poco prezzo (con l’unica deroga del teatro che lavora sulla visione e intercetta circuiti che si intersecano con l’arte visiva).
Il ciclo non è semplicemente uno spettacolo più lungo – altrimenti dovremmo includere in questo ragionamento anche operazioni come quella di Peter Stein con «I demoni» – o una forma che straborda dai confini abituali del teatro. Certo, sia in «One Day» che in «Bizarra», ad esempio, la scelta di realizzare uno spettacolo fuori scala, fuori misura, è anche una sfida diretta a un sistema teatrale (nel caso italiano) e a una congiuntura economica (nel caso argentino) che sembrano voler comprimere il teatro in modo irrimediabile. Ma la forma del ciclo ha anche delle implicazioni drammaturgiche particolarmente interessanti, che danno il segno di un tentativo di smarcarsi dall’estetica del frammento che ha caratterizzato la stagione del post-modernismo senza però tornare pedissequamente a una messa in scena di tipo classico.
Il ciclo ha a che vedere con l’epica, ne è anzi la sua forma classica, e l’epica è certamente presente in tutte queste opere, che nella loro complessità presentano diversi tratti tipici del racconto epico. A sorpresa, nell’epoca della comunicazione rapida e di superficie, sembra sia proprio il racconto epico, con la sua stratificazione e il suo tempo di fruizione decisamente superiore allo standard abituale, a suggerire una possibile via di uscita dal post-moderno, dalla sua frammentazione, dalla sua negazione del racconto in favore di un’opera aperta dalle letture molteplici e tutte egualmente valide. D’altronde se uno dei pilastri delle teorie sulla post-modernità era proprio la fine della storia – e il concetto elaborato da Francis Fukuyama altro non era se non l’attestazione dell’impossibilità di riprendere un racconto epico della storia contemporanea dopo il crollo del comunismo e la messa in discussione dell’ideale di matrice marxista del progresso come motore della storia –, per converso è proprio con l’epica che la storia inizia. Perché è l’epica l’unico genere in grado di partorire i miti fondativi su cui si ergono le grandi narrazioni.
Qualcosa del genere l’ha intuito negli stessi anni la letteratura, che proprio nell’ultimo decennio ha cercato di uscire dall’empasse in cui si era cacciata tempo prima, messa alle corde da un minimalismo più di idee che stilistico. Nel nostro paese si possono ricordare operazioni come i «Canti del Caos» di Antonio Moresco, mentre la New Italian Epic – termine proposto nel 2008 da Wu Ming 1 per circoscrivere un’insieme di autori e opere letterarie uscite a nell’arco che va dalla seconda metà degli anni Novanta al primo decennio del nuovo secolo2 – è oggi una categoria che anima con forza il dibattito letterario. Anche se questa definizione prende in considerazione romanzi di ambientazione storica o metastorica, è possibile proporre un parallelismo di fondo, magari spurio, con quanto avviene nel teatro dove invece l’ambientazione è rigorosamente legata al presente e addirittura all’attualità. In entrambi i casi, comunque sia, si cerca nell’epica il meccanismo in grado di riattivare gli stanchi meccanismi della narrazione, la scintilla in grado di “avvincere” il lettore/spettatore, come si dice.
Facciamo subito due precisazioni. La prima è che l’epica, nonostante sia una parola che affascina, una parola “euforica” che evoca vastità di orizzonti, grandezza di scrittura e d’impresa – per usare una definizione della critica letteraria Carla Benedetti3 – non è necessariamente intrisa di etica. Ai suoi meccanismi sono ricorsi anche – e ben prima di teatro e letteratura – gli sceneggiatori televisivi statunitensi, tanto che le loro serie tv sono il principale prodotto di intrattenimento di questi anni. Ovviamente con ciò non voglio affermare che le serie tv siano necessariamente portatrici di contenuti non etici, ci mancherebbe; ma è giusto sottolineare che la capacità di rifarsi all’epica e ai suoi meccanismi appartiene anche ai prodotti commerciali di intrattenimento (per altro il più delle volte sono prodotti di ottima fattura e che si avvalgono di sceneggiatori di alto livello). D’altronde stiamo parlando di una “forma”, per quanto complessa essa sia e per quanto in campo estetico la forma sia anche portatrice di sostanza; e le forme hanno un valore limitato nel tempo e nell’utilizzo che se ne fa: se servono a scardinare convenzioni e illuminare percorsi di ragionamento sul mondo che ci circonda – a spostare continuamente l’oggetto, dice Fabrizio Arcuri4, affinché forma e oggetto non sclerotizzino il loro rapporto svuotandolo di senso – hanno un valore contiguo a quel valore sociale che riconosciamo all’arte piuttosto che all’intrattenimento. «A volte le rivoluzioni passano per l’invenzione di nuove forme», dice Rafael Spregelburd in un’intervista pubblicata da Lo Straniero5. Ma, appunto, in questo caso il valore rivoluzionario sta tanto nella forma quanto nell’atto dell’inventare.
Seconda precisazione: la vera colpa della post-modernità, dal punto di vista delle forme estetiche che ha espresso, sta nel fatto che a causa della sua formulazione apocalittica queste si pretendono implicitamente come un orizzonte estetico definitivo e impossibile da superare (anche se allo stesso tempo inneggiano al perseguimento del “nuovo”, categoria mitizzata e spesso equivocata). Inoltre, se e quando queste forme estetiche vengono praticate in nome di una critica-denuncia della realtà coatta della post-modernità stessa, esse risultano spesso troppo contigue all’oggetto della propria critica, rendendo di fatto impossibile distinguere tra “adesione” e “denuncia” (per altro in perfetta coerenza con la post-modernità dove tutto e il contrario di tutto collassa nel buco nero di uno stesso orizzonte senza possibilità di futuri eventi: forse, da questo punto di vista, quella sulla post-modernità è l’unica teoria filosofica e sociologica ad essere contemporaneamente apocalittica e integrata). Insomma, come si fa a dire se siamo “contro” o “a favore”? Come possiamo sapere, dentro questo quadro, se l’arte ha talmente abbassato la sua voce da farla confluire in quel “raffinato silenzio” che è la confusione mediatica – secondo una felice espressione di Ascanio Celestini – o se invece sta gridando a gran voce? Non è dato saperlo, perché nel mare magnum della post-modernità non c’è più un fuori o un dentro, e porre simili questioni equivale a disquisire del sesso degli angeli…
Ovviamente non è vero che non sia possibile distinguere il grano dal loglio, né per altro il fatto di prendere posizione può essere ridotto a un atteggiamento da stadio basato sul pro e contro. Le sfumature esistono, e spesso è da esse che le contraddizioni emergono non come elemento di confusione, ma come forma di illuminazione. Per questo, accanto alle due precisazioni fatte nel paragrafo precedente, e conseguentemente ad esse, va notato che queste forme di epica – quelle teatrali come quelle letterarie – non hanno alcun problema a dialogare con un altro ingrediente cardine delle pastoie della post-modernità e della loro pretesa di confinare il reale in un eterno presente, un presente espanso immemore del passato e che non prevede il futuro: il Pop.
Il filosofo Maurizio Ferraris, in un recente articolo6 apparso su La Repubblica, scrive che il post-moderno può essere sintetizzato in tre parole di undici lettere in tutto: Iper Pop Post. «l’Iper come valutazione positiva dell’eccesso e come rifiuto della misura, il Pop come miscela di alto e basso nel sistema dei media, e soprattutto il Post, l’idea di essere postumi, di venire dopo», scrive Ferraris.
Certamente il ricorso all’epica cerca di lasciarsi alle spalle il Post: la rivendicazione è portata avanti con forza da parte di questi artisti, tanto che Fabrizio Arcuri di questo ragionamento ne fa un fil rouge che attraversa esplicitamente la complessa stratificazione di «One Day»; mentre l’Institute of Germanic and Romance Studies dell’Università di Londra ha deciso di intitolare la pubblicazione degli atti di due conferenze sulla New Italian Epic in modo emblematico: “Overcoming Postmodernism”. Ma l’Iper e il Pop? Sono elementi costitutivi tanto della teatro-novela di Rafael Spregelburd o della maratona di «One Day», quanto di romanzi metastorici come «Q» di Luther Blissett (il precedente nome collettivo del gruppo di scrittori oggi noto come Wu Ming) o di scritture debordanti come «I canti del caos». Tutti questi oggetti artistici sono “eccessivi”, e tutti si immergono volentieri nell’oceano del Pop e ne fanno un elemento di fascinazione. Questo vuol dire che la loro voce si unisce al raffinato silenzio della confusione mediatica?
Impossibile dare una risposta univoca, in grado di fornire una qualche equazione di portata generale. Alla fin fine – ed è un bene! – sono sempre le opere a parlare per se stesse, e non le teorie. Però si può azzardare un’ipotesi di massima, e cioè che quando il ricorso all’Iper e al Pop è di matrice esclusivamente seduttiva, esso si situa sulla frequenza del rumore di fondo, del raffinato silenzio della confusione mediatica. Se invece tale ricorso costituisce sì una fascinazione, ma che ha il compito non di sedurre, bensì di aprire squarci di riflessione sul presente, allora esso si colloca in una frequenza diversa, dove le parole sono distinguibili, e i loro significati, anche se presentano sfaccettature molteplici, sono certamente lontani dall’essere ambigui.
In questo quadro mi sembra che, a prima vista, il teatro dei cicli e dell’epica contemporanea presenti qualche anticorpo in più rispetto a un fenomeno come la New Italan Epic. Nella letteratura il ricorso all’epica è sì un tentativo riuscito di recuperare un più ampio respiro a una narrativa che sembrava destinata ad avere il fiato corto; ma la narrazione mantiene un grado di finzionalità decisamente elevato, dove da questo punto di vista l’epica non è altro che il nuovo patto comunicativo tra chi scrive e chi legge, nient’altro che la “forma in voga”. Certo, poi questa forma può essere utile per tornare a mettere sul piatto della letteratura tematiche importanti e di più ampio respiro – ad esempio il “destino dei popoli”, secondo Wu Ming – ma è spesso anche un meccanismo strumentale che utilizza la forma in modo seduttivo, ed è quindi a forte rischio di retorica. Nelle arti che utilizzano la parola questo rischio si materializza di solito quando si è convinti, in modo più o meno manifesto, della superiorità del contenuto rispetto alla forma; mentre è il rapporto osmotico tra forma e sostanza a far scaturire l’alchimia necessaria affinché un oggetto d’arte parli davvero a chi lo fruisce. Non sto ovviamente affermando che l’intero corpus di romanzi citati da Wu Ming 1 nel suo saggio siano retorici, tutt’altro; ma che la loro finzionalità, il loro “crederci”, il loro ricorso all’epica per sentirsi epici, resti un limite – per altro un limite strutturale, visto che la narrativa è prevalentemente “fiction” – all’equazione “epica uguale recupero di un possibile discorso sul mondo”. Non dico che questa equazione non sia possibile, semplicemente che non è automatica. Perché manca un aspetto fondamentale per la letteratura, il terzo vertice del triangolo che poggia sull’asse forma-sostanza e che è forse l’elemento più importante: la lingua. È la lingua dello scrittore, il suo stile, a far sì che il patto comunicativo non resti mera seduzione ma produca uno spostamento dello sguardo del lettore sul mondo; e non a caso è proprio la lingua il grande rimosso della letteratura nell’epoca della post-modernità, è lo stile ad essere finito sul banco degli accusati per il fatto di costituire un ostacolo naturale alla comunicazione. Da questo punto di vista un esperimento straniante come «I canti del caos» di Moresco mi sembra un ricorso all’epica più complesso e riuscito.
Nel teatro la questione corre su un altro binario. Perché la riflessione sulla finzionalità è esplicita e irrinunciabile, è praticamente il rovello di ogni teatrante da quando esiste il teatro. E il tema della realtà e della finzione è intimamente connesso alla natura stessa del medium teatrale. Una buona fetta delle ultime generazioni teatrali italiane – a prescindere dal fatto che utilizzino o meno il genere epico – hanno declinato, in varie forme estetiche, un’urgenza comune: l’urgenza di scardinare in vari modi i meccanismi della comunicazione, di mostrare in scena il giocattolo rotto, spaccato, per poterne mostrare il funzionamento7. Il capitale che il teatro si porta dietro, in questa riflessione, è la messa in discussione dell’idea di “rappresentazione” (in quanto elemento di finzione) che ha agitato le acque del dibattito teatrale praticamente durante tutto il Novecento. Il risultato – come a sottolineato Andrea Porcheddu durante l’incontro su «One Day» – è che oggi ad esempio è possibile assistere a spettacoli, in tutta Europa, che recuperano meccanismi di racconto e “messa in scena” ma che allo stesso tempo presentano quel fenomeno, mutuato dalla performing art, della “scomparsa del personaggio” (ovvero quando gli attori stanno sulla scena in quanto se stessi, e non perché stanno cercando di materializzare uno specifico personaggio). E questa coesistenza – al contrario di quanto avverrebbe in letteratura, dove si finirebbe subito nel campo nell’esperimento metaletterario – non dà all’opera un alone di metateatralità. Al contrario, recupera il patto comunicativo con lo spettatore sulla base del fatto che assieme a lui l’attore smonta la comunicazione abituale e i suoi meccanismi.
Tornando a quel teatro che sta facendo ricorso al ciclo e all’epica, esso pur immergendosi nelle acque agitate del Pop si porta in dote questa complessa e inesauribile riflessione dell’arte teatrale sulla finzionalità. L’essere obsoleto del medium teatrale, rispetto ad una post-modernità fatta di ipermedia digitali, fa sì che il posticcio della costruzione mediale della realtà sia in teatro sempre presente ed esplicito: gli attori (e dietro di loro i registi) devono costantemente interrogarsi su cosa dia loro il diritto di stare in scena, ovvero su cosa consenta loro di essere credibili di fronte a chi li sta a guardare. Non possono richiamarsi a un patto comunicativo che gioca sull’immedesimazione per così dire “immersiva” (come nel cinema, ad esempio, o nella letteratura), perché lo spettatore non è da solo davanti all’opera teatrale: ne è invece egli stesso una parte, perché senza lo spettatore il teatro non può fisicamente avvenire. Il grado zero del teatro è sempre e comunque l’incontro (anche fisico) tra esseri umani, tra spettatore e attore, e se c’è immedesimazione essa deve necessariamente passare per le dinamiche dell’incontro e del dialogo, del mettersi in relazione. Si tratta di un dato pratico che ha però un valore semantico preciso. Un aspetto del teatro che fa il palio a quanto afferma il regista Massimiliano Civica a proposito dell’autoralità in teatro: «Il regista e gli attori diventano un multinarratore che racconta al pubblico e si determina qualcosa che travalica la comprensione del singolo per dar luogo a un terzo. Chi l’autore di uno spettacolo teatrale? Secondo me nessuno: a teatro è sempre un terzo magico che parla ed è costituito dalla relazione8». Se a questo ragionamento aggiungiamo il terzo vertice del triangolo che dà vita a uno spettacolo, e cioè il pubblico e la sua percezione, possiamo immaginare il teatro come qualcosa che si manifesta in un luogo ipotetico che è l’intersezione dove tutti questi soggetti si incontrano. Se vogliamo, da questo punto di vista, il teatro è un’arte decisamente più concettuale di tante altre arti.
La scelta del ricorso all’epica e al ciclo, allora, non essendo alla base del patto comunicativo del teatrante con lo spettatore, non rischia di invischiarsi in un meccanismo retorico del quale si tenta uno smontaggio costante – almeno in un certo tipo di teatro. L’epica si delinea quindi come il tentativo di invenzione di una linea narrativa complessa e stratifica, che tuttavia non giustifica di per sé l’operazione teatrale, semplicemente perché è “di grande respiro” o “ben fatta”, come una serie tv, ma perché inventa una forma nuova dal potenziale “rivoluzionario” nel senso espresso da Spregelburd.
Ciò vuol dire che nel teatro il ricorso all’epica è un fatto positivo e non lo è nella letteratura? Ovviamente non si può porre la questione in modo manicheo. Come ho già affermato le opere, siano esse di teatro che di letteratura, si possono giudicare solo per ciò che valgono e non per l’adesione ad una teoria piuttosto che ad un’altra – e per fortuna. Credo però che il ricorso all’epica non possa delinearsi come fatto virtuoso in sé – “etico” nell’accezione proposta prima – se non affronta il suo stretto legame con un alto dei vertici del triangolo della post-modernità: il Pop.
Che poi l’epica possa essere considerata il nostro pass per la fuga dalla post-modernità è tutto da verificare. Non può allontanarsi dall’Iper senza negare se stessa, e difficilmente rinuncerà al Pop perché è la carta che gioca per avvincere lo spettatore/lettore. Nella sua negazione del Post, tuttavia, disegna un orizzonte più vasto verso cui guadare che già permette di respirare meglio, di annusare un’aria meno viziata. E non è cosa da poco.

Graziano Graziani
10 dicembre 2010

1 Per altro Rafael Spregelburd è autore anche di un altro ciclo, la «Eptalogia di Hieronymous Bosch», uscita in Italia in due volumi per Ubulibri, a cura di Manuela Cherubini.
2 Wu Ming «New Italian Epic», Einaudi Stile Libero 2009.
3 «Free Italian Epic» di Carla Benedetti, articolo apparso su www.ilprimoamore.com l’11 marzo 2009 e, in forma ridotto e col titolo «Stroncatura epica», su L’Espresso n°10 del 12 marzo 2009.
4 Il riferimento non è a un testo scritto, ma a l’intervento che ha fatto il regista dell’Accademia degli Artefatti a Novo Critico in occasione della presentazione di «One Day».
5 «Teatro e Telenovela», intervista di Graziano Graziani a Rafael Spregelburd, da Lo Straniero n°126-127 – dicembre 2010 / gennaio 2011.
6 «Siamo ancora postmoderni?» di Maurizio Ferraris, articolo apparso su La Repubblica del 19 giugno 2010.
7 Vedi a questo proposito il saggio «La realtà allo stato gassoso. Uno sguardo ai teatri degli anni Duemila» di Graziano Graziani, in corso di pubblicazione in forma di articolo su www.altrevelocita.it a dicembre 2010.
8 Massimiliano Civica intervistato da Attilio Scarpellini, in «Sogno nella notte dell’estate» di William Shakespeare nella traduzione di Massimiliano Civica, a cura di Attilio Scarpellini, Editoria&Spettacolo 2010.

mercoledì 1 dicembre 2010

incontro finale di Novo Critico

venerdì 3 dicembre ore 18
OPIFICIO TELECOM ITALIA

Via dei Magazzini Generali



INCONTRO FINALE
Novo Critico 2010

appuntamenti tra critica e nuova scena performativa


Si terrà venerdì 3 dicembre alle ore 20, presso l’Opificio Telecom Italia sede di Romaeuropa Fondazione, l’incontro finale di Novo Critico. L'incontro sarà preceduto alle ore 18,30 da una riflessione sullo stato della critica che prenderà spunto dal libro "Questo fantasma: il critico a teatro" di Andrea Porcheddu, redattore di delteatro.it e docente Iuav a Venezia, e Roberta Ferraresi.
Otto compagnie di teatro e due di danza hanno incontrato la critica in un contenitore ad hoc, unico nel suo genere in tutta Italia. Un progetto ideato da Elvira Frosini in collaborazione con amnesiA vivacE e le Università La Sapienza Roma Uno e Tor Vergata Roma Due, per un dialogo fra artisti, critici e studenti.

La seconda edizione di NOVO CRITICO – Appuntamenti tra critica e nuova scena performativa ha avuto il sostegno dell’Assessorato alle politiche educative, scolastiche, della famiglia e della gioventù del Comune di Roma, il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Roma ed è stato arricchito dalle collaborazioni con le Università La Sapienza Roma Uno e Tor Vergata Roma Due, con il partenariato della Fondazione Romaeuropa, da sempre attenta a mostrare ed attuare un percorso di attenzione e sostegno ai nuovi fermenti e linguaggi della contemporaneità.
Dieci incontri ad ingresso gratuito in diversi spazi della città (Spazio Kataklisma, in zona Pigneto, Università Romadue, Kollatino Underground) dove gli artisti hanno presentato una prova aperta della nuova produzione oppure un estratto di lavoro che delineasse il loro percorso artistico. A seguire il critico coprotagonista dell’incontro è intervenuto elaborando riflessioni sulla produzione in scena, gestendo un dialogo con l’artista e il pubblico sul percorso creativo in atto, sulle pratiche adottate e sul processo di elaborazione.
Non solo una rassegna, dunque, ma un percorso aperto di performance, prove aperte e work in progress attuato insieme ai critici, avvicinandoli agli artisti e al loro lavoro, in un calendario di appuntamenti che ha avuto lo scopo di delineare una nuova pratica di riflessione ed uno scambio dialettico tra artisti della scena contemporanea, la critica e il pubblico presente, con particolare attenzione agli studenti universitari, grazie al laboratorio critico seguito da Donatella Orecchia e da Roberto Ciancarelli.




martedì 23 novembre 2010

Il decimo appuntamento in calendario è

venerdì 26, sabato 27, domenica 28 novembre ore 19.00 - 22.00
KOLLATINO UNDERGROUND
Via Sorel 10, Roma



ACCADEMIA DEGLI ARTEFATTI

incontra
ANDREA PORCHEDDU


Nel nono incontro di Novo Critico:

Tre giorni per One Day
conferenza-spettacolo di e con Accademia degli Artefatti partecipa Andrea Porcheddu
(nei giorni del 26 e 27)

In occasione di Novo Critico, Accademia degli Artefatti presenta una conferenza-spettacolo per rivedere e riflettere su “ONE DAY finalmente vivere servirà a qualcosa”, un’esperienza artistica e produttiva indimenticabile. Accademia degli Artefatti presenta Tre giorni per One Day venerdì 26, sabato 27, domenica 28 novembre nei locali del Kollatino Underground dalle ore 19.00 alle ore 22.00. Una conferenza-spettacolo dedicata al progetto produttivo di uno spettacolo di 24 ore che due anni fa non riuscì a debuttare a causa di problemi produttivi. Dopo due anni Novo Critico permette alla compagnia di portare a termine quello che il regista Fabrizio Arcuri definisce “l’elaborazione di un lutto artistico” e insieme di ritrovare e rigiocare con i testi e gli umori di quello spettacolo. Un’occasione unica per comprendere che spettacolo sarebbe dovuto essere e che spettacolo non è stato. L’incontro sarà coordinato da Andrea Porcheddu, redattore di delteatro.it, e docente Iuav a Venezia. Nell’occasione sarà presentato il volume “One Day - finalmente vivere servirà a qualcosa” di Magdalena Barile/Accademia degli Artefatti edito da Titivillus “Ventiquattro ore tra Bucarest e Tijuana ascoltando i Kiss e leggendo Brecht, dove ogni ora è scandita da un evento, pubblico o privato che sia, grazie a Sophie Calle, Santiago Serra, Wang Quingsong, Cindy Sherman, attori che dormono e tecnici che fanno monologhi e una falsa Liz Taylor che racconta la storia di un ragazzino rumeno rapito e portato in Messico per venderne gli organi. Dopo un periodo di voci sgranate e appena pronunciate, di spazi poco più che vuoti e di giochi umani prima ancora che attoriali, molto dopo DALL’INFERNO e subito dopo Crimp e Crouch, ci sembra il momento di fare più rumore, di occupare più spazio e in modo più dirompente, per giocare ancora con la ridondanza della realtà ma senza sottrarvisi.” [Fabrizio Arcuri]. ONE DAY si propone come un luogo e un tempo che ospitino il teatro in tempi in cui il teatro fatica a essere ospitato. È uno spettacolo sulle modalità produttive di fare spettacolo, sul senso di fare spettacolo, sul senso di non farlo. Uno spettacolo per il pubblico, sul pubblico e del pubblico. È uno spettacolo fatto di eccezioni, uno spettacolo pornografico, contro la pornografia; una storia emozionante contro l’emozione, contro il turbamento. ONE DAY non è un evento, ma è uno spettacolo sull’evento. Dura ventiquattro ore, non ha inizio e non ha fine: è già iniziato quando entra il primo spettatore e termina solo dopo che se ne andrà l’ultimo. La sua compiutezza risiede nella durata. Rimanda alla classicità della tragedia, dell’epopea, più che alla performatività contemporanea. Nel suo intero sviluppo mescola i generi, li ri-produce, li parodia, li rifiuta. E’ una festa, un’occasione di incontro tra spettacolo e pubblico, entrambi forzati alla reciproca – a tratti estenuante – comprensione. È anche un musical, che però si vergogna di esserlo. Finalmente vivere servirà a qualcosa non è solo un sottotitolo: è un’indicazione estetica e di lavoro, che fa propria e insieme condanna la tendenza tipica dei nostri anni a riprodurre, filmare, fotografare, inquadrare ogni avvenimento e ogni luogo.

ACCADEMIA DEGLI ARTEFATTI si forma intorno agli anni Novanta con lo specifico progetto di promuovere, organizzare e diffondere la cultura teatrale. Produce numerosi spettacoli, performance e azioni teatrali ed è ospite nelle più importanti manifestazioni teatrali e rassegne italiane. Vince la Biennale giovani di Roma del 1999 e nel 2000 il Palazzo delle Esposizioni di Roma dedica un’ampia retrospettiva dei lavori del gruppo. Gli ultimi anni, segnati dall'incontro con la drammaturgia inglese contemporanea e con gli autori Sarah Kane, Martin Crimp, Tim Crouch e Mark Ravenhill, hanno visto Accademia degli Artefatti impegnata in lunghe tournée per tutta Italia. In particolare con gli ultimi passaggi dei progetti Dress Code: reality (Tre pezzi facili e Attentati alla vita di lei di Martin Crimp), Ab-uso (An oak tree e My arm di Tim Crouch) e Spara, trova il tesoro e ripeti di Mark Ravenhill. Questa svolta drammaturgica ha portato la compagnia a ricevere il Premio Ubu 2005 per Tre pezzi facili e il Premio della Critica 2010.

ANDREA PORCHEDDU è critico teatrale e giornalista, membro dell’Associazione Nazionale Critici Teatro e dell’International Association Theater Critics, insegna dal 2002 “Metodologia della critica dello spettacolo” alla “Facoltà design e arti” dello Iuav di Venezia. Ha insegnato “Animazione Teatrale” all’Università della Calabria e “Teoria e Tecnica della progettazione pedagogica” all’Accademia Silvio d’Amico di Roma. È stato direttore responsabile del bimestrale Teatro/Pubblico, edito dal Teatro Stabile di Torino fino al giugno 2007. Ha collaborato con diverse testate nazionali (Rai Radio3-Suite; RaiSat; RaiUno-Palcoscenico, Il sole 24ore, L’Unità, Stream Tv; Epolis; Dnews) e scrive per delteatro.it. Ha pubblicato diversi libri, tra cui “Questo fantasma, il critico a teatro” (Titivillus, 2010); La storia e la visione: sessanta anni dell’Accademia Nazionale di Danza (Gangemi, 2008); Il falso e il vero: il teatro di Arturo Cirillo (Titivillus, 2008); Palermo dentro: il teatro di Emma Dante (Editrice Zona 2006); Per una nuova animazione teatrale (Edizioni Casa Teatro Ragazzi, Torino, 2006), L’invenzione della memoria: il teatro di Ascanio Celestini (Il Principe Costante edizioni, 2005), Il compagno di Banquo: scritti su teatro e scuola (Fabio Croce Editore, 2002), Adriatico, manuale per un viaggio teatrale nei Balcani (Edizioni Css Udine, 2001), Casa degli Alfieri, la terra e la poesia (Titivillus, 2001), numerosi saggi, sceneggiature e i romanzi Piccola tragedia, in minore (Edizioni Fabio Croce, 2000) e Amarti m’affatica (Maschietto Editore, 2006). Per RaiCinema è co-autore dei documentari Antigone e l’Impero (2008) e L’Italia del nostro scontento (2009). Dirige il Festival “Teatri delle Mura” di Padova dal 2006 al 2009, ha ideato e dirige il Festival “Sguardi-teatro contemporaneo in Veneto” ed è membro di numerose giurie nazionali ed internazionali di settore.

ingresso libero su prenotazione

info e prenotazioni: tel begin_of_the_skype_highlighting 349 2834261 end_of_the_skype_highlighting
novocritico@gmail.com
novocritico.blogspot.com
349 2834261




mercoledì 6 ottobre 2010

appuntamenti tra critica e nuova scena performativa


Otto compagnie di teatro e due di danza incontrano la critica in un contenitore ad hoc, unico nel suo genere in tutta Italia. Un progetto ideato da Elvira Frosini in collaborazione con amnesiA vivacE e le Università La Sapienza Roma Uno e Tor Vergata Roma Due, per un dialogo fra artisti, critici e studenti e con il partenariato della Fondazione Romaeuropa, da sempre attenta a mostrare ed attuare un percorso di attenzione e sostegno ai nuovi fermenti e linguaggi della contemporaneità.


Si apre l’8 ottobre la seconda edizione di NOVO CRITICO – Appuntamenti tra critica e nuova scena performativa, un progetto che si rivolge al ricco fermento dei linguaggi della nuova scena performativa, e prevede la partecipazione di dieci compagnie di teatro e di danza provenienti dal territorio romano e da quello nazionale, per offrire un panorama articolato e approfondito sulla nuova scena e il rapporto con la critica e il pubblico

Dieci incontri ad ingresso gratuito, pomeridiani o serali, in diversi spazi della città (Spazio Kataklisma, in zona Pigneto, Università Romadue, Kollatino Underground) dove gli artisti presenteranno una prova aperta della nuova produzione oppure un estratto di lavoro che delinei il loro percorso artistico. A seguire il critico coprotagonista dell’incontro interverrà elaborando riflessioni sulla produzione in scena, e gestirà un dialogo con l’artista e il pubblico sul percorso creativo in atto, sulle pratiche adottate e sul processo di elaborazione.

Non solo una rassegna, dunque, ma un percorso aperto di performance, prove aperte e work in progress che si attua insieme ai critici, avvicinandoli agli artisti e al loro lavoro, in un calendario di appuntamenti che ha lo scopo di delineare una nuova pratica di riflessione ed uno scambio dialettico tra artisti e gruppi della scena contemporanea, il pubblico e la critica, in particolare la “nuova critica”, scelta non solo come interlocutore privilegiato, ma anche e in primo luogo come attore di questo processo.

Fra i partner del progetto, inoltre, ci sarà Krapp's Last Post, klpteatro.it, rivista in rete specializzata nella critica e la diffusione della cultura teatrale, che realizzerà interviste video ai critici e agli artisti pubblicandole su web, e i video documentativi degli incontri. Il lavoro e la complessità delle implicazioni, le domande, le questioni emerse saranno quindi continuamente monitorati e pubblicati, rendendo possibile anche un ampliamento del dibattito e della riflessione.

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