giovedì 6 gennaio 2011

RASSEGNA STAMPA - RIFLESSIONI


LA CRITICA CHE NON CRITICA
di Alfio Petrini

Faccio alcune riflessioni non esaustive sul teatro addormentato nel bosco, non avendo il potere magico di ridestarlo. Sonno della ragione. Sonno del corpo-mente che si fa azione. Sonno del pensiero che si fa sangue e del sangue che si fa pensiero. Il teatro non sfugge a questa condizione, perché è un tassello della grande macchina del paese reale. A questa condizione non sfugge neppure il lavoro critico.

In tempi così difficili la bella addormentata trasmigra, lascia la favola e si annida nella realtà quotidiana della polis che non c’è. Quindi anche nel teatro. Se da verbo non si fa carne, non si fa vissuto, non si fa movimento del pensiero e del desiderio, non si fa presente che ipoteca il futuro, il teatro finisce per generare ripetizione, rinuncia, difesa dello status quo, servitù politica e culturale a beneficio del potente o dell’intoccabile di turno. L’uomo di teatro - ma non solo -, crede di essere furbo o di doversi fare furbo, di essere fortunato o sfortunato secondo i casi, e non si accorge di essere caduto in catalessi. Così la stasi somiglia al movimento, la vita alla morte. Così la cultura lobbistica, la protezione politica, l’inazione, l’eliminazione del conflitto e la subordinazione dell’arte alla politica dettano le regole e producono quel mercato che è dichiarato libero, ma che libero non è. Altro che meritocrazia!

Il sonno è della drammaturgia esangue, sociologica, ideologica e materialistica, sopraffatta dall’informazione, descrittiva, mimetica. Copia e non trasforma. Pompa sentimenti. Tratta il personaggio non come un lessema, ma come un organismo vivente. Pretende di cambiare il mondo. Insegue il male per suggerire il bene, ignorando che nessun uomo è esente dal male perché lo porta con sé. Eh, già, il male sta sempre fuori di noi! I cattivi, gli imbecilli e gli incompetenti sono sempre gli altri! Bellezza estetica e buone intenzioni non salvano il mondo. Buonismo e moralismo sono la negazione dell’arte, della informazione, della produzione di coscienza critica.

Il sonno è la condizione di molta scrittura scenica che non sa entrare nella mente dello spettatore - scuoterlo, provocarlo, indurlo all’attività -, anche per effetto della paura di sbagliare, della precarietà delle fortune improvvisate, delle riforme annunciate a dritta e a manca e mai realizzate. È la condizione che attraversa le centinaia di scuole di teatro e le pagine dei manuali impegnati a formare e informare disoccupati che sognano di ‘esprimersi’, alimentando un mercato fittizio che risponde a pratiche seduttive e corrosive, in un momento storico in cui bisognerebbe avere la possibilità d’imparare a disimparare e di formare gli uomini, non gli attori, i registi o i critici. È la condizione in cui si trova la critica che non critica, perché non crede più in se stessa, perché si è rinchiusa in asfittici recinti, perché si limita a fare raccontini o a confezionare cronache cultural-mondane. E’ la condizione in cui versa la classe politica, che non ha più etica, che invece di cambiare se stessa, pensa a cambiare i cittadini, dimostrando di essere fuori posto e non dedita al lavoro che dovrebbe fare. Un male grave da cui discendono altri mali.

Siamo in piena barbarie.

Ma attenzione a non ricorrere al vezzo e al vizio dei buoni sentimenti e del bene trionfante sul male. Si può venire fuori dalla barbarie a condizione che sia compresa e non demonizzata, studiata e non condannata con sentenza passata in giudicato, accettata e non rifiutata a priori come cosa che non ci riguarda. Per andare oltre la barbarie bisogna essere barbarici. Bisogna che ciascuno assuma la barbarie in se stesso. Insomma, possiamo superarla, se pensiamo preliminarmente che non sia estranea alla nostra persona, che sia uno dei mondi possibili che ci appartengono - assunto nel vasto mondo interiore -, anche se nella vita quotidiana non abbiamo mai compiuto atti barbarici. Insomma, i barbari siamo noi, sfrenati, eccessivi e licenziosi. Non a-morali, ma immorali. Capaci di confusioni atroci, di errori e di nefandezze infinite, ma anche di visioni, estasi e incantesimi per i quali, però, non proviamo l’ebbrezza dei romantici. Chi si mostra in odore di santità è chiamato progressista, moderno e antibarbaro. Chi ammette di avere la cattiveria in corpo è definito antimoderno, reazionario e barbarico. Il primo tende a vincere sull’altro, il secondo tende a cambiare se stesso. Evviva la barbarie.

Sono convinto che se me ne faccio carico, posso ipotizzare di uscire dall’imbarbarimento, un giorno, con qualcosa di nuovo, perché solo dalla barbarie si può uscire con un atto concreto di civiltà e, perché no, di bellezza. Se questo vale, in tutto o in parte, nella vita, figuriamoci nell’arte del teatro e nel lavoro critico. Dunque, la critica non critica per motivi sociali, ai quali ho fatto cenno, ma anche per carenze culturali e tecniche.

Non intendo in questa sede affrontare le questioni di carattere tecnico - legate al sapere e al non-sapere -, anche se credo che esistano e che interessino non solo la giovane critica, ma anche quella che avrebbe dovuto essere alternativa ai ‘baroni’. È un’impresa ardua destrutturare uno spettacolo e per farlo in modo originale è necessario andare al di là dei cliché della tradizione immobile: occorrono conoscenze e abilità assai complesse, meglio se suffragate da esperienze consumate accanto ai maestri riconosciuti del fare teatro.

Per fortuna non esiste un manuale del buon critico. Il lavoro critico non ha canoni da rispettare. Mi sembra tuttavia che abbia ragione Carla Benedetti (citata da Andrea Porcheddu nel suo bel libro Questo fantasma, il critico a teatro) quando sostiene che bisogna “riaprire le porte al pensiero, porre domande a tutto campo, nominare conflitti e lacerazioni, esplorare, distinguere, approfondire”. Se è vero che la separatezza e l’autoreferenzialità sono un tradimento del lavoro critico, bisogna che la critica si riappropri delle armi che gli sono proprie, ritrovi la funzione sociale nel rendere giustizia al pensiero, lavori sulla memoria e con la memoria per scavare, portare alla luce, cogliere l’invisibile, carpire e capire l’immagine, per destinare al futuro il lavoro fatto sul passato, per separare l’autentico dall’inautentico. Occorre che si liberi dal testo e dallo spettacolo per ritrovare il giudizio critico al testo e allo spettacolo, che sia sereno, non affrettato e legato al velo della superficie. Che si liberi dalle oscillazioni dei gusti e dei disgusti contingenti, dalle predilezioni estetiche e dalla partigianeria ideologica, dalla corsa al mestiere come improvvisazione post-laurea (prima) e dalla metodica della rendicontazione afferente alla cronaca teatrale più che al lavoro critico (dopo). Che si liberi “dalla recensione - scrive Porcheddu - per ritrovare la recensione liberata” da censure e autocensure, riserve mentali e impacciati equilibrismi. Che si liberi, aggiungo, dal vincolo assoluto di oggettività, tenendo in buona considerazione anche il livello della soggettività, se è vero – com’è vero -, che è oggettivamente impossibile raccontare uno spettacolo di teatro. In tal senso penso, paradossalmente, che il miglior modo per fare la critica di uno spettacolo sia di allontanarsene il più possibile con la speranza di poterlo almeno sfiorare. Ripensarlo e rimembrarlo nei dettagli vuol dire proprio lavorare sulla memoria e con la memoria dello spettacolo per destinare al futuro uno scritto al quale riconoscere senza riserve un valore letterario autonomo rispetto al testo e allo spettacolo. Dico un valore letterario autonomo.

La conclusione non può che essere inconcludente. La chiacchiera è assordante, il silenzio è vuoto, la dismisura è catalettica. Tuttavia, se è vero che l’uomo morto nasconde fermenti di vita, quelli concernenti la decomposizione del corpo; se è vero che ogni processo degenerativo implica un processo rigenerativo, è ragionevole pensare che il sonno potrà generare il risveglio del lavoro critico addormentato nel bosco. I fermenti ci sono. Mancano le condizioni di fondo del buongoverno, il credito sociale, alcune premesse necessarie a disegnare nuove prospettive di lavoro e la voglia di sentirsi parte di una “comunità”, quella di cui parla Katia Ippaso.

Chi avrà il coraggio di affrontare lo stato d’assedio e di rimettersi in discussione? Chi avrà il coraggio di entrare nel merito delle strategie ministeriali tese ad affermare che il teatro è lo spettacolo d’intrattenimento? Chi sarà disponibile a fare la radiografia del dirigismo distributivo, dei covacci del potere clientelare, delle vecchie e nuove rendite di posizione? Chi chiuderà la forbice abissale che si è aperta tra interessi legittimi e interessi illegittimi, tra il pensare altro e il vincere sull’altro? Quale mondo ha preso il sopravvento dentro di noi? Quale mondo possiamo raccontare, se nutriamo un mondo di morte? Quale energia siamo in grado di bruciare, quale scintilla possiamo generare, se il nostro corpo-mente è apparentemente vivo? Come sarà possibile andare al di là dei propri limiti e delle proprie idee, pensare altro altrove altrimenti, attraversare con paura e con coraggio allo stesso tempo i luoghi di senso? Come sarà possibile generare la follia luminosa di cui ha bisogno il mondo? Come sarà possibile dimenticare questo mondo, quando sarà necessario dimenticarlo, e versare lacrime dopo averlo dimenticato?

Parlare di teatro vuol dire parlare del mondo.

A chi dobbiamo delegare la tutela della nostra immagine e della nostra operatività? A nessuno. Di certo, non alla politica, che insegue - quando va bene -, i bisogni degli uomini, invece di prevenirli. Figuriamoci se può risolvere i problemi di una piccola casta, che appare senza senso in una società votata allo sviluppo che non coincide con il progresso sociale. Nessun principe potrà salvarci. Non c’è bisogno d’interposta persona, tanto meno di maghi o di cavalieri erranti, per ridare concretezza alla nostra utopia. All’orizzonte non vedo un uomo capace di farlo. Anche se ci fosse, non gli delegherei nulla del mio lavoro e della mia vita.

Forse bisognerebbe cominciare dal ‘basso’, dalla ‘base’, come si diceva una volta, dal nostro lavoro quotidiano, con coraggio, con determinazione, con la forza che potrebbe derivare dall’essere parte di una “comunità”. “Non sarebbe bello contribuire a fabbricare un nuovo immaginario, presentandoci l’uno all’altro come comunità?”, si chiede la Ippaso nella sua lettera aperta. Sarebbe bellissimo. A condizione che si prenda atto che la critica subisce sia il danno di una forte regressione sociale e culturale del paese sia lo svantaggio dello stato catalettico in cui giace da molto tempo e che la rende estranea ai problemi del teatro e della comunità nazionale. Nessuno può isolarsi. Nessuno può permettersi di sentirsi migliore degli altri, ma nessuno può concedersi il lusso di considerare intoccabili i “baroni che ci hanno mangiati vivi”. I baroni ci hanno mangiati vivi anche perché ci siamo fatti mangiare vivi. Non ripetiamo l’errore e creiamo un coordinamento dei critici. Dalle domande possiamo, di certo, cominciare o ricominciare. Qualunque perdita è buona per ricominciare daccapo, meno la perdita della parola. A essa sono affidate dignità, sicurezza e integrità. Solo in condizione di non precarietà si può ascoltare la vita. Sogni, sacrifici, deliri, dunque, e impudicizie ci vogliono. Purché siano incontenibili.


Alfio Petrini
Gennaio 2011

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