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mercoledì 3 agosto 2011

RASSEGNA STAMPA - PRIMO INCONTRO

KLPTEATRO.IT

Novo Critico 2010. Chi è di scena per Daniele Timpano e Nicola Viesti


Daniele Timpano

















Ci siamo. Dopo due anni di fermo, la serie di incontri che nel 2008 aveva portato il nome di Uovo Critico, torna sul palco romano di Kataklisma con il nome, nuovo appunto, di Novo Critico. Un secondo tentativo, che si spera raggiunga e superi il successo riscosso dalla precedente edizione. Una delle poche arene in cui, in questo momento delicato per l’intero ambiente teatrale, le tre belve che lo compongono (artisti, critica e pubblico) hanno occasione di fronteggiarsi e, potenzialmente, sbranarsi. Questo è, in due parole, l’evento che KLP seguirà come media partner fino al 3 dicembre. Tutti i video e il materiale prodotto verranno pubblicati nella nuova sezione Partnership.   Alla conferenza stampa di presentazione del 6 ottobre al Nuovo Teatro Colosseo, a “casa” del grande Simone Carella, erano presenti gli organizzatori, alcuni artisti e critici in programma, la nostra telecamera e i pochi giornalisti che hanno deciso (chissà poi se inviati o mossi da un buffo senso del dovere autonomo) di registrare il passaggio di questo tentativo. Perché di questo si tratta, di un tentativo, un esercizio, ancora prima che di un esperimento.

Il titolo dello spettacolo di cui Andrea Cosentino presenterà il 15 ottobre qualche passo è “Esercizi di rianimazione”. La critica Katia Ippaso in conferenza stampa ha colto l’occasione per fare di quel titolo un sottotitolo di Novo Critico stesso. Questo vorrà essere un “esercizio di rianimazione”, rivolto alla critica e al suo rapporto (in via d’estinzione) con pubblico e artisti.

Daniele Timpano ha aperto le danze incontrando Nicola Viesti. L'uno è attore/autore iconoclasta e grottesco (tra i suoi lavori “Ecce Robot”, “Dux in scatola”, “Risorgimento Pop”); critico del Corriere del Mezzogiorno, Hystrio e Eolo l’altro. È durata quasi mezz’ora la presentazione in forma di studio del nuovo lavoro di Timpano “Aldo Morto”, racconto del sequestro Moro a partire dalla persona più che dalla leggenda. Sempre senza pietismi, piuttosto alla ricerca di una terza via che si insinui tra il vero e il verosimile. In pieno stile Timpano è l’attacco a un personaggio che, stavolta, è davvero acquattato nell’immaginario di tutti, più mito che uomo, più oggetto della cultura pop che simbolo della storia italiana.
C’è stato fin troppo entusiasmo (qualche discussione) tra il pubblico, stretto all’angolo dal fuoco dell’attacco cattivo di Timpano, con Viesti a far quasi da paciere, alla ricerca, tutti quanti (artista, critico e pubblico) di punti di riferimento per far procedere il lavoro. Non senza frecciatine, fraintendimenti e qualche malinconia.

Sergio Lo Gatto
11 ottobre 2010

mercoledì 6 luglio 2011

RASSEGNA STAMPA

TEATRO E CRITICA

La rianimazione di Novo Critico: dieci appuntamenti con la scena contemporanea

L’incontro. C’è questa parola alla base dell’interessante progetto Novo Critico, giunto alla seconda edizione ma saltandone una, lo scorso anno, per manifesta impossibilità finanziaria. Elvira Frosini, fondatrice dello spazio Kataklisma e l’omonima compagnia di teatro-danza, quest’anno ce l’ha fatta, con l’aiuto dell’amministrazione: dieci appuntamenti in cui alcune compagnie del panorama contemporaneo si confronteranno con pubblico e un critico, un vicino di sedia direi, una guida attraverso lo scambio degli occhi: quelli dell’artista e quelli di chi guarda, un compagno di strada attraverso quel tortuoso percorso che è la creazione.
Gli appuntamenti saranno in questa autunnata che a Roma tarda ad arrivare, fino all’inverno prima che si passi l’anno 2010. Dall’8 ottobre al 3 dicembre quindi, si comincia questo venerdì 8 ottobre alle 21 con Daniele Timpano, che presenterà 15 minuti del suo nuovo progetto in fieri: Aldo Morto, un nome un programma, accompagnato alla visione-creazione da Nicola Viesti, e da tutti coloro che vorranno recarsi allo spazio del Pigneto, nato in questo quartiere quando ancora non c’era nessuno a ricordarsene il nome. Si continuerà con programma irregolare fino a dicembre, con Kataklisma, Cosentino, Teatro Forsennato, Santasangre, Daria Deflorian, Ambra Senatore, Accademia degli Artefatti, Malasemenza, Alessandra Sini, tanti artisti, tanti amici: eh sì, perché se vogliamo trovare qualcosa a questo programma, è proprio questo: ma possibile che sembra il giochino “unisci i puntini” della Settimana Enigmistica? Dove c’è Timpano c’è Cosentino ecc. ecc. Ma insomma, meglio averli che non averli, di sicuro. L’intero percorso, che vedrà la collaborazione delle prime due università di Roma: La Sapienza e Tor Vergata, con Roberto Ciancarelli e Donatella Orecchia, sarà seguito da un laboratorio degli studenti di queste università, che offriranno anche alcuni spazi per gli incontri. Tra i critici ci sarà Claudia Cannella, Giulio Latini, Katia Ippaso, Rossella Battisti, Florinda Nardi, Massimo Marino, Rodolfo Sacchettini, Andrea Porcheddu, Simone Pacini; in più Roberto Ciancarelli curerà un deposito critico, assieme a Paolo Ruffini, ma ci sarà anche una officina critica condotta da Attilio Scarpellini e forse altri critici della città teatrale. Ci sarà anche la tv, per una volta, anzi due: infatti media partner saranno i nostri colleghi di KLP che avranno in video tutti gli incontri sulla rivista e E-Theatre che invece permetterà di vederli in streaming.
Tra le parole pronunciate questa mattina in conferenza stampa, quella più giusta l’ha detta Katia Ippaso, traendola dal titolo dello spettacolo di Cosentino: “questo è davvero un esercizio di rianimazione…”, intendendo che unire forze e farne un valore potrà e dovrà essere determinante. E poi una frase senza pretese, più di altre, detta da Timpano: “tra le altre cose”, per dire delle tante attività di ognuno, della bellezza della compromissione, una frase che così vuol dire poco, ma si unisce sempre a un contesto. Qui il contesto è di tutto rispetto e me ne attendo ottime cose, perché l’incontro è sovrano di ogni nascita, di ogni nuova appartenenza, ma come tenere a bada il rischio di confusione? Perché è vero che dal caos nasce l’ordine, ma l’epoca moderna ci ha insegnato anche che senza l’ordine a volte a regnare è proprio il caos. Ma tanto basta: la connessione è fermento, c’è voglia e bisogno dell’incontro, e allora che ci si incontri in così tanti, e magari ci si scontri pure, l’importante è che non si crei quel che ripeteva di continuo mia nonna: “co’troppi galli a cantà nun se fa mai giorno”, intendendo dire che, nella malaugurata ipotesi che troppi piumati della stessa specie siano nello stesso giardino, con il compito di svegliare un’intera popolazione di spettatori, c’è il rischio fondato che si resti tutti nel letto di una straordinaria dormita collettiva. Ma per Novo Critico non sarà così, pertanto giù dal letto, tutti in piedi per gli esercizi di rianimazione di un nuovo splendido primo mattino.

Simone Nebbia
7 ottobre 2010 

sabato 28 maggio 2011

RASSEGNA STAMPA

KLPTEATRO.IT

Novo Critico 2010. Quando critica, pubblico e artisti lavorano insieme


Guai a chi cerca ancora di affermare che artisti, pubblico e critica sono entità separate, mondi distanti. Due anni fa, a Kataklisma Teatro, gestito dall’omonima compagnia (sotto la guida di Elvira Frosini) al quartiere romano del Pigneto, si era svolta la prima edizione di quello che allora si chiamava “Uovo Critico”. Il progetto mirava a creare uno spazio di lavoro e riflessione comune in cui si quelle tre entità si potessero incontrare. L’esigenza proveniva da una crescente diffidenza nata intorno al legame che doveva e dovrebbe fare da collante per la prosperità e la conservazione del teatro contemporaneo. Del teatro, ci piace tornare a dire, “sperimentale”, nel senso proprio del termine, cioè quel genere di lavoro che vede la scena come terreno di sperimentazione scientifica.

Le disastrose circostanze (economiche e non solo) dei mesi passati avevano reso impossibile la replica di quell’evento nell’annata 2009. Ora la volontà di preservare quel legame torna a farsi più che mai urgente. Da questa piccola storia nasce, con appunto rinnovata forza, “Novo Critico – Appuntamenti tra critica e nuova scena performativa”. La formula resta più o meno invariata: sono stati selezionate 10 compagnie/artisti e 10 critici; nel corso di due mesi (dall’8 ottobre al 3 dicembre 2010), si terranno degli incontri che testimonieranno la relazione tra queste due categorie, il tutto di fronte alla terza: il pubblico.
Per gli spettatori non si tratterà tanto di assistere a una sorta di “incontro di boxe” tra critico e artista, quanto piuttosto di essere parte integrante del formarsi e del consolidarsi di un rapporto che per forza di cose esiste da sempre. La creatività incontra la considerazione estetica: il critico viene messo in contatto con l’artista al momento della definizione del calendario, in modo che abbia tempo e modo di approfondirne il lavoro, comprenderne l’estetica, riflettere sulle sue motivazioni di fondo. Durante l’incontro l’artista presenterà il proprio lavoro davanti al pubblico e al critico di turno, con il quale si intavolerà la discussione. Non un semplice dibattito, ma la costruzione di una strada estetica completa, il tentativo di riunire le forze verso una meglio definita direzione, un percorso più consapevole nella creatività come nella sua traduzione in un codice comprensibile per gli spettatori.

L’evento, promosso dal Comune di Roma, presentato in collaborazione con DAMS di Lettere e FIlosofia dell'Università di Tor Vergata, DASS, Facoltà Scienze Umanistiche, La Sapienza, Università di Roma e con il partenariato di Fondazione Romaeuropa, prevede per quest’anno l’inserimento di una nuova collaborazione, chiamata “Deposito Critico”: il prof. Roberto Ciancarelli (docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo e Storia della Danza e del Mimo all’Università di Roma La Sapienza) e Paolo Ruffini (giornalista, critico e studioso di teatro, che dirige, tra l’altro, la collana “Spaesamenti” per Editoria&Spettacolo) saranno “testimoni speciali e competenti” degli incontri di Novo Critico, offrendo un contributo fondamentale all’approfondimento della discussione. Proprio perché, per chiudere il cerchio, la volontà del progetto promosso da Kataklisma e amnesiA vivacE è quello di restituire alla critica l’approfondimento di contenuti necessario a valorizzare il lavoro di chi fa il teatro. L’ultima iniziativa sarà quella, già sperimentata nei festival più all’avanguardia, di istituire un Osservatorio Critico, coordinato da docenti delle Università di RomaUno (Elena D’Angelo e Francesca Magnini, coordinate dal prof. Ciancarelli) e RomaDue (Giada Oliva, Francesca Bini e Maria Rita Di Bari, coordinate dalla prof.ssa Donatella Orecchia).

Si parte l’8 ottobre con l’incontro tra Daniele Timpano e Nicola Viesti. Gli appuntamenti successivi di ottobre prevedono Andrea Cosentino / Claudia Cannella, (15 ottobre), Santasangre / Antonio Audino (il 20), Alessandra Sini / Rossella Battisti (il 26) e Kataklisma / Massimo Marino (il 29). E via fino al 3 dicembre (vai al programma completo), ospitati ora dallo spazio Kataklisma e ora dall’Università di Tor Vergata. Krapp’s Last Post seguirà l’evento come media partner ufficiale insieme a Radio Tre. Filmeremo tutti gli incontri, dei quali daremo conto pubblicando via, con la maggior celerità possibile, un breve montaggio video di qualche minuto che offra un’idea delle questioni emerse, dei passi fatti insieme. Nel corso dell’evento intervisteremo anche gli artisti e i critici coinvolti, per dimostrare davvero che, se questo è il momento di far rinascere la critica, KLP è qui e si batte in prima linea.
la Redazione di Klpteatro.it
4 ottobre 2010

mercoledì 11 maggio 2011

RASSEGNA STAMPA

 IL DOPO TEATRO


Novo critico: la critica è viva

A breve inizia Novo Critico: una serie di incontri tra attori, pubblico e critica. A ogni aritsta viene affiancato un critico: costretti a dialogare ne uscirà qualcosa che verrà presentato al pubblico. Un'opportunità unica per il triangolo della perfezione! Finalmente.
Ho sognato per poco che mi avessero scelto per partecipare come critico e così ho sognato di parlare con un pò di balbettìo e la "r" moscia: "Dovrei esordire con la frase più banale al mondo: la Critica è morta! Ma che cazzo vuol dire? Allora dico che la Critica è viva. O meglio ci sono dei morti che ancora scrivono e dei vivi che vorrebbero. Ci sono certi morti che, essendosi fatti rosicchiare riga a riga il loro spazio sul giornale, hanno riversato le idee sul web uccidendo, da morti, la Critica stessa e, cosa quanto mai rara, il web journalism. Sembra che sfoghino quel pensare vacuo che non possono mettere nel giornale. Aprono dei blog nei siti dei quotidiani nazionali e si abbandonano. E non se ne abbia a male qualcuno in sala!
Poi c'è una nuova generazione (che va dal ventenne al settantenne), lungimirante, che prova a capire e smontare uno spettacolo con la tecnologia. Fa della sintesi il dono più grande alla recensione e quando trova l'artista a lui congeniale lo studia con tutta la tecnologia possibile.
E' quanto di più lontano dal teatro riprodurre uno spettacolo con un video, ma è altrettanto lontano non parlarne a dovere per conservare una memoria. Il Critico deve cadere a piombo nelle reti che l'artista ha posto per sè e per il pubblico. Mai creerà qualcosa per un critico.
E allora direi ai morti, ai quali riconosco l'autorevolezza che si mostra ai morti, di farsi da parte. Fate altro. Noi siamo più sporchi di voi, siamo senza sciarpa, abbiamo lasciato cadere tante vostre credenze...in sintesi abbiamo avuto Maestri diversi che voi non avete conosciuto. Tutto qui.
Se il Teatro è contemporaneo i morti sanno cosa fare."
redazione Il Dopo Teatro
3 ottobre 2010

lunedì 20 dicembre 2010

RASSEGNA STAMPA - NOVO CRITICO RIFLESSIONI

KLPTEATRO.IT

Novo Critico 2010. Riflessioni su un rapporto in divenire


Evoluzione


















Non è facile fare un punto della situazione. Abbiamo seguito Novo Critico 2010 e su queste pagine ne avete avuto testimonianza. Dall'incontro conclusivo, ma non solo da quello, è emerso come certe correnti mosse da questo ricco evento abbiano raggiunto la foce in modo netto, senza disperdersi, arrivando a regalare una consapevolezza chiara a quanti ne abbiano preso parte come animatori o semplici osservatori.

Per due mesi interi dieci compagnie/artisti hanno incontrato altrettanti critici/studiosi: un campione rappresentativo per definire le linee di condotta di un rapporto ancora tutto da comprendere. L’incontro conclusivo ha visto alcuni dei partecipanti tornare sul palco a ricapitolare una sensazione di meraviglia nei confronti di quanto viva sia questa generazione di artisti e critici. Oltre a Elvira Frosini e Daniele Timpano, ideatori della manifestazione e padroni di casa, sono tornati Graziano Graziani, Antonio Audino, Claudia Cannella, Katia Ippaso, Massimo Marino e Andrea Porcheddu: tutti critici di una generazione avanti a noi, intervenuti parlando di quanta voglia di fare abbiano i giovani, di quanto desiderio ci sia di sperimentare. Sul lato della cosidetta "critica" si parla di un nuovo modo di scrivere, di un nuovo modo di comunicare, di nuove motivazioni, di nuove tecnologie, di nuovi target. E ben venga.
Eppure è forse un rischio vedere ovunque una novità. O comunque cercarla. Questo lo si impara sul campo, frequentando sale e foyer, in cui non sempre il nuovo coincide con il buono, in cui le riflessioni vincenti (e per vincenti si intende che progrediscono, che evolvono davvero, che non muoiono sulla porta del teatro) sono figlie dell’intraprendenza, della comunicabilità, ma non per forza del “mai visto prima”. Forse sarebbe utile accettare il cambiamento (di contenuti, di mezzi, di pratiche) non come qualcosa di straordinario ma di naturale. Stupirsi e compiacersi di una critica che usa altri mezzi, che “milita” in un modo nuovo sarebbe come stupirsi di un fuoco che si accende girando una manopola senza bisogno della pietra focaia.

Ecco perché scrivo qui di un rapporto “ancora tutto da comprendere”. Perché, come spesso accade, ancora prima della teoria, compare una questione di terminologia e di vissuto. Una questione di drammaturgia, se vogliamo. A mio parere, se una definizione univoca che inquadri la critica contemporanea non è semplice da formulare, non è neppure auspicabile. Potremmo davvero stare a discutere mesi su quali siano i ruoli, quali i compiti, quali i materiali, quali i metodi. Inciamperemmo fatalmente in quella terminologia che, anni fa, decise che la parola critico dovesse riferirsi a qualcuno che faceva da censore.
Che il critico (lo chiamiamo così per praticità e sintesi) abbia smesso di fare il bello e il cattivo tempo lo sappiamo già da un po’; il punto sta forse nel capire se il critico sia nella posizione di offrire un ombrello o una sdraio da sole da contrapporre a quel tempo. Se cioè, una volta capito che possiamo accendere il fuoco con la manopola, abbiamo ancora qualcosa di commestibile da cucinare. E qui entra il gioco il vissuto: la realtà della critica e del pubblico, che il teatro lo guardano, è molteplice, così come lo è quella di chi il teatro lo fa. Figlia di una territorialità che va difesa, tenta di fuggire una definizione, chiama un raro modello di autonomia condivisa.

Proviamo a immaginare il migliore dei mondi possibili, in cui artisti e pubblico sono personalità che sperimentano. Se il linguaggio di chi fa teatro si rinnova di continuo, tenta di mettersi sempre alla prova, di raccontare il proprio tempo intessendo sintesi artistiche non necessariamente nuove, ma piuttosto personali, allo stesso modo è affascinante immaginare un pubblico altrettanto dinamico, un “punto di vista”. Allora sarebbe splendido pensare a creatività che continuino a cercare il proprio centro, rifuggendo una definizione univoca e andando a presentare questa stessa ricerca come un fatto dinamico, come un conflitto, nei confronti del quale il punto di vista possa porsi come agente che reagisce, come spunto, come gancio. Se fosse davvero così, anche la critica avrebbe un proprio ruolo, un ruolo ancora una volta dinamico, vivo, indefinito ma solo perché sempre pronto alla discussione, fermo sul pezzo. Quindi mobile.

Ma questo è il migliore dei mondi possibili. Stiamo immaginando. Eppure, se si parla con gli artisti com'è accaduto durante Novo Critico, in mezzo alle giustissime lamentele per una politica (e una pratica) culturale inesistente, s’infila una sorta di rivendicazione: laddove si tenta di definire qualcosa si incontra il muro di gomma della “ricerca”. Ed è giusto così, soprattutto dove si intravede un percorso, dove l’istanza compare, dove la passione porta a mettersi alla prova. E allora proviamo a rivendicare lo stesso diritto.
Novo Critico è nato e cresciuto con l’intento di creare dei raccordi, non necessariamente degli accordi. È stata una torre di controllo in grado di chiarire le rotte di molti attraversamenti. Krapp è stato testimone di questi momenti di incontro, di dialogo. Ha registrato le questioni sorte come onde di un sismografo. Il risultato è che il dibattito sul ruolo della critica è ancora vivo, ora più che mai. Negli interventi dei nomi sopracitati (leggi la lettera aperta di Katia Ippaso) si parla di teatro come “pensiero in movimento”, di scrivere come “conoscere”, della volontà di confrontarsi ancora tra artisti, critica e pubblico. Addirittura, all’interno della critica, di arrivare a un vero e proprio confronto generazionale.

Come accade in ogni momento figlio di una crisi totale, radicale, materiale, ora certe possibilità si stanno facendo concrete. Sono le possibilità non tanto della critica, ma del pensiero critico, qualcosa che appartiene a tutti i lati di un vivere vigile. E se qualcosa si sta muovendo è grazie sì all’impegno di “giovani critici” e di “meno giovani critici”, ma molto di più grazie al semplice fatto che le cose evolvono. Soprattutto in situazioni di emergenza globale, politica, etica (che altri hanno analizzato a dovere). Perché le energie si rimescolano, tornano a vibrare.

A volte sembra invece che la critica sia più importante dell'arte; o che i critici dettino le regole del gioco, facendo accendere le luci in sala. Ma se i fari sono puntati su qualcuno non dev'essere - crediamo - sulla critica in senso stretto. E spesso qualcuno, foss'anche in buona fede, pare scordarsene.
Trattare un’energia come qualcosa di straordinario non è sempre l’atteggiamento migliore, se si vuole che quell’energia produca qualcosa. Pensiamo ai contenuti, alle modalità, alle sinergie. Il grande cambiamento di questi mesi “sta essendo”, direbbero gli inglesi, nel contatto, nell’incrocio, nel confronto. “Non dobbiamo essere per forza d’accordo sulle idee, ma almeno stringiamoci attorno a delle idee che siano tali”.
Il nostro lavoro è stato di registrare quei battiti di senso e discussione, amplificandoli affinché tramite mezzi adeguati possano raggiungere anche chi non era presente negli incontri a Kataklisma, a Tor Vergata o al Kollatino Underground. Allora è qui il nostro senso. Stiamo raccontando. Conservando la passione ma osservando una giusta distanza, quella della prospettiva, per comprendere sempre meglio e soprattutto senza dare mai per scontato nessun ruolo.
Quella della critica è una materia che cambia, che si trasforma. A noi interessano la ricerca e la differenza che possiamo fare in un percorso di conoscenza, approfondimento, presenza. E dunque evoluzione. Questa è cultura.

Sergio Lo Gatto
11 dicembre 2010

RASSEGNA STAMPA : DECIMO INCONTRO - da Teatroecritica.it

Epica, Etica e Pop – manovre di uscita dalla post-modernità tra letteratura e teatro.


A fine novembre, al Kollatino di Roma, in occasione dell’ultimo appuntamento di Novo Critico, l’Accademia degli Artefatti ha presentato in lettura alcune scene tratte da «One Day», lo spettacolo di 24 ore che doveva debuttare nel 2008 al festival Romaeuropa ma che, a causa di problemi produttivi, non ha mai visto la luce. Nonostante non sia stato portato a termine, per il regista Fabrizio Arcuri «One Day» resta il miglior pezzo di teatro realizzato dalla sua compagnia, perché era “nato per testimoniare l’assoluta inadeguatezza del sistema” e coerentemente è stato “abortito per mano di questa inadeguatezza”. In effetti «One Day» aleggia come un fantasma sulla attuale situazione di dismissione di spazi e finanziamenti che sta minando il sistema teatrale italiano, perché ne è stato forse il primo concreto campanello d’allarme, e gode per tanto oggi di una luce quasi “mitica”.
È inutile cimentarsi in una recensione di uno spettacolo mai andato in scena, di cui sono state presentate solo alcune parti e per di più in lettura. Sarebbe una restituzione necessariamente parziale, visto che «One Day» è un’opera-mondo estremamente complessa, che avrebbe dovuto ospitare al suo interno altri spettacoli, e che proponeva diversi piani di realtà e filoni di storia in un intreccio elaboratissimo: dal rapimento di un bambino rumeno alla parabola del pupazzo Dolly Bell che raffigura un coniglio ceceno (ma Dolly Bell è anche tante altre cose…), dalle performance live dei Kiss – il gruppo preferito del bambino, ma anche l’icona esemplare della riproducibilità pop, qui accostata addirittura all’opera di Pechino – alle avventure del pornoattore Tito, passando per le maglie noir di un affare di traffico d’organi. E questo è solo un assaggio della drammaturgia elaborata da Magdalena Barile a partire dalle idee di Fabrizio Arcuri e dalle improvvisazioni dei suoi attori – oggi raccolta in un libro uscito di recente per Titivillus.
Tuttavia l’operazione di «One Day» può fornire uno spunto di riflessione interessante per leggere una tendenza che si sta delineando nel teatro internazionale. «One Day», come «Spara/Trova il tesoro/Ripeti» – i diciassette pezzi scritti dal drammaturgo inglese Mark Ravenhill e messi in scena sempre da Arcuri – o come la teatronovela di Rafael Spregelburd «Bizarra», la cui versione italiana realizzata da Manuela Cherubini è attualmente in scena all’Angelo Mai di Roma, sono tutti esempi di utilizzo di una forma insolita per il teatro: il ciclo1. Insolita perché la perenne crisi in cui versa il teatro ci ha abituati a spettacoli sempre più piccoli, con pochi attori quando non uno solo, con scenografie ridotte o inesistenti, insomma un teatro “tascabile” da poter spostare facilmente e a poco prezzo (con l’unica deroga del teatro che lavora sulla visione e intercetta circuiti che si intersecano con l’arte visiva).
Il ciclo non è semplicemente uno spettacolo più lungo – altrimenti dovremmo includere in questo ragionamento anche operazioni come quella di Peter Stein con «I demoni» – o una forma che straborda dai confini abituali del teatro. Certo, sia in «One Day» che in «Bizarra», ad esempio, la scelta di realizzare uno spettacolo fuori scala, fuori misura, è anche una sfida diretta a un sistema teatrale (nel caso italiano) e a una congiuntura economica (nel caso argentino) che sembrano voler comprimere il teatro in modo irrimediabile. Ma la forma del ciclo ha anche delle implicazioni drammaturgiche particolarmente interessanti, che danno il segno di un tentativo di smarcarsi dall’estetica del frammento che ha caratterizzato la stagione del post-modernismo senza però tornare pedissequamente a una messa in scena di tipo classico.
Il ciclo ha a che vedere con l’epica, ne è anzi la sua forma classica, e l’epica è certamente presente in tutte queste opere, che nella loro complessità presentano diversi tratti tipici del racconto epico. A sorpresa, nell’epoca della comunicazione rapida e di superficie, sembra sia proprio il racconto epico, con la sua stratificazione e il suo tempo di fruizione decisamente superiore allo standard abituale, a suggerire una possibile via di uscita dal post-moderno, dalla sua frammentazione, dalla sua negazione del racconto in favore di un’opera aperta dalle letture molteplici e tutte egualmente valide. D’altronde se uno dei pilastri delle teorie sulla post-modernità era proprio la fine della storia – e il concetto elaborato da Francis Fukuyama altro non era se non l’attestazione dell’impossibilità di riprendere un racconto epico della storia contemporanea dopo il crollo del comunismo e la messa in discussione dell’ideale di matrice marxista del progresso come motore della storia –, per converso è proprio con l’epica che la storia inizia. Perché è l’epica l’unico genere in grado di partorire i miti fondativi su cui si ergono le grandi narrazioni.
Qualcosa del genere l’ha intuito negli stessi anni la letteratura, che proprio nell’ultimo decennio ha cercato di uscire dall’empasse in cui si era cacciata tempo prima, messa alle corde da un minimalismo più di idee che stilistico. Nel nostro paese si possono ricordare operazioni come i «Canti del Caos» di Antonio Moresco, mentre la New Italian Epic – termine proposto nel 2008 da Wu Ming 1 per circoscrivere un’insieme di autori e opere letterarie uscite a nell’arco che va dalla seconda metà degli anni Novanta al primo decennio del nuovo secolo2 – è oggi una categoria che anima con forza il dibattito letterario. Anche se questa definizione prende in considerazione romanzi di ambientazione storica o metastorica, è possibile proporre un parallelismo di fondo, magari spurio, con quanto avviene nel teatro dove invece l’ambientazione è rigorosamente legata al presente e addirittura all’attualità. In entrambi i casi, comunque sia, si cerca nell’epica il meccanismo in grado di riattivare gli stanchi meccanismi della narrazione, la scintilla in grado di “avvincere” il lettore/spettatore, come si dice.
Facciamo subito due precisazioni. La prima è che l’epica, nonostante sia una parola che affascina, una parola “euforica” che evoca vastità di orizzonti, grandezza di scrittura e d’impresa – per usare una definizione della critica letteraria Carla Benedetti3 – non è necessariamente intrisa di etica. Ai suoi meccanismi sono ricorsi anche – e ben prima di teatro e letteratura – gli sceneggiatori televisivi statunitensi, tanto che le loro serie tv sono il principale prodotto di intrattenimento di questi anni. Ovviamente con ciò non voglio affermare che le serie tv siano necessariamente portatrici di contenuti non etici, ci mancherebbe; ma è giusto sottolineare che la capacità di rifarsi all’epica e ai suoi meccanismi appartiene anche ai prodotti commerciali di intrattenimento (per altro il più delle volte sono prodotti di ottima fattura e che si avvalgono di sceneggiatori di alto livello). D’altronde stiamo parlando di una “forma”, per quanto complessa essa sia e per quanto in campo estetico la forma sia anche portatrice di sostanza; e le forme hanno un valore limitato nel tempo e nell’utilizzo che se ne fa: se servono a scardinare convenzioni e illuminare percorsi di ragionamento sul mondo che ci circonda – a spostare continuamente l’oggetto, dice Fabrizio Arcuri4, affinché forma e oggetto non sclerotizzino il loro rapporto svuotandolo di senso – hanno un valore contiguo a quel valore sociale che riconosciamo all’arte piuttosto che all’intrattenimento. «A volte le rivoluzioni passano per l’invenzione di nuove forme», dice Rafael Spregelburd in un’intervista pubblicata da Lo Straniero5. Ma, appunto, in questo caso il valore rivoluzionario sta tanto nella forma quanto nell’atto dell’inventare.
Seconda precisazione: la vera colpa della post-modernità, dal punto di vista delle forme estetiche che ha espresso, sta nel fatto che a causa della sua formulazione apocalittica queste si pretendono implicitamente come un orizzonte estetico definitivo e impossibile da superare (anche se allo stesso tempo inneggiano al perseguimento del “nuovo”, categoria mitizzata e spesso equivocata). Inoltre, se e quando queste forme estetiche vengono praticate in nome di una critica-denuncia della realtà coatta della post-modernità stessa, esse risultano spesso troppo contigue all’oggetto della propria critica, rendendo di fatto impossibile distinguere tra “adesione” e “denuncia” (per altro in perfetta coerenza con la post-modernità dove tutto e il contrario di tutto collassa nel buco nero di uno stesso orizzonte senza possibilità di futuri eventi: forse, da questo punto di vista, quella sulla post-modernità è l’unica teoria filosofica e sociologica ad essere contemporaneamente apocalittica e integrata). Insomma, come si fa a dire se siamo “contro” o “a favore”? Come possiamo sapere, dentro questo quadro, se l’arte ha talmente abbassato la sua voce da farla confluire in quel “raffinato silenzio” che è la confusione mediatica – secondo una felice espressione di Ascanio Celestini – o se invece sta gridando a gran voce? Non è dato saperlo, perché nel mare magnum della post-modernità non c’è più un fuori o un dentro, e porre simili questioni equivale a disquisire del sesso degli angeli…
Ovviamente non è vero che non sia possibile distinguere il grano dal loglio, né per altro il fatto di prendere posizione può essere ridotto a un atteggiamento da stadio basato sul pro e contro. Le sfumature esistono, e spesso è da esse che le contraddizioni emergono non come elemento di confusione, ma come forma di illuminazione. Per questo, accanto alle due precisazioni fatte nel paragrafo precedente, e conseguentemente ad esse, va notato che queste forme di epica – quelle teatrali come quelle letterarie – non hanno alcun problema a dialogare con un altro ingrediente cardine delle pastoie della post-modernità e della loro pretesa di confinare il reale in un eterno presente, un presente espanso immemore del passato e che non prevede il futuro: il Pop.
Il filosofo Maurizio Ferraris, in un recente articolo6 apparso su La Repubblica, scrive che il post-moderno può essere sintetizzato in tre parole di undici lettere in tutto: Iper Pop Post. «l’Iper come valutazione positiva dell’eccesso e come rifiuto della misura, il Pop come miscela di alto e basso nel sistema dei media, e soprattutto il Post, l’idea di essere postumi, di venire dopo», scrive Ferraris.
Certamente il ricorso all’epica cerca di lasciarsi alle spalle il Post: la rivendicazione è portata avanti con forza da parte di questi artisti, tanto che Fabrizio Arcuri di questo ragionamento ne fa un fil rouge che attraversa esplicitamente la complessa stratificazione di «One Day»; mentre l’Institute of Germanic and Romance Studies dell’Università di Londra ha deciso di intitolare la pubblicazione degli atti di due conferenze sulla New Italian Epic in modo emblematico: “Overcoming Postmodernism”. Ma l’Iper e il Pop? Sono elementi costitutivi tanto della teatro-novela di Rafael Spregelburd o della maratona di «One Day», quanto di romanzi metastorici come «Q» di Luther Blissett (il precedente nome collettivo del gruppo di scrittori oggi noto come Wu Ming) o di scritture debordanti come «I canti del caos». Tutti questi oggetti artistici sono “eccessivi”, e tutti si immergono volentieri nell’oceano del Pop e ne fanno un elemento di fascinazione. Questo vuol dire che la loro voce si unisce al raffinato silenzio della confusione mediatica?
Impossibile dare una risposta univoca, in grado di fornire una qualche equazione di portata generale. Alla fin fine – ed è un bene! – sono sempre le opere a parlare per se stesse, e non le teorie. Però si può azzardare un’ipotesi di massima, e cioè che quando il ricorso all’Iper e al Pop è di matrice esclusivamente seduttiva, esso si situa sulla frequenza del rumore di fondo, del raffinato silenzio della confusione mediatica. Se invece tale ricorso costituisce sì una fascinazione, ma che ha il compito non di sedurre, bensì di aprire squarci di riflessione sul presente, allora esso si colloca in una frequenza diversa, dove le parole sono distinguibili, e i loro significati, anche se presentano sfaccettature molteplici, sono certamente lontani dall’essere ambigui.
In questo quadro mi sembra che, a prima vista, il teatro dei cicli e dell’epica contemporanea presenti qualche anticorpo in più rispetto a un fenomeno come la New Italan Epic. Nella letteratura il ricorso all’epica è sì un tentativo riuscito di recuperare un più ampio respiro a una narrativa che sembrava destinata ad avere il fiato corto; ma la narrazione mantiene un grado di finzionalità decisamente elevato, dove da questo punto di vista l’epica non è altro che il nuovo patto comunicativo tra chi scrive e chi legge, nient’altro che la “forma in voga”. Certo, poi questa forma può essere utile per tornare a mettere sul piatto della letteratura tematiche importanti e di più ampio respiro – ad esempio il “destino dei popoli”, secondo Wu Ming – ma è spesso anche un meccanismo strumentale che utilizza la forma in modo seduttivo, ed è quindi a forte rischio di retorica. Nelle arti che utilizzano la parola questo rischio si materializza di solito quando si è convinti, in modo più o meno manifesto, della superiorità del contenuto rispetto alla forma; mentre è il rapporto osmotico tra forma e sostanza a far scaturire l’alchimia necessaria affinché un oggetto d’arte parli davvero a chi lo fruisce. Non sto ovviamente affermando che l’intero corpus di romanzi citati da Wu Ming 1 nel suo saggio siano retorici, tutt’altro; ma che la loro finzionalità, il loro “crederci”, il loro ricorso all’epica per sentirsi epici, resti un limite – per altro un limite strutturale, visto che la narrativa è prevalentemente “fiction” – all’equazione “epica uguale recupero di un possibile discorso sul mondo”. Non dico che questa equazione non sia possibile, semplicemente che non è automatica. Perché manca un aspetto fondamentale per la letteratura, il terzo vertice del triangolo che poggia sull’asse forma-sostanza e che è forse l’elemento più importante: la lingua. È la lingua dello scrittore, il suo stile, a far sì che il patto comunicativo non resti mera seduzione ma produca uno spostamento dello sguardo del lettore sul mondo; e non a caso è proprio la lingua il grande rimosso della letteratura nell’epoca della post-modernità, è lo stile ad essere finito sul banco degli accusati per il fatto di costituire un ostacolo naturale alla comunicazione. Da questo punto di vista un esperimento straniante come «I canti del caos» di Moresco mi sembra un ricorso all’epica più complesso e riuscito.
Nel teatro la questione corre su un altro binario. Perché la riflessione sulla finzionalità è esplicita e irrinunciabile, è praticamente il rovello di ogni teatrante da quando esiste il teatro. E il tema della realtà e della finzione è intimamente connesso alla natura stessa del medium teatrale. Una buona fetta delle ultime generazioni teatrali italiane – a prescindere dal fatto che utilizzino o meno il genere epico – hanno declinato, in varie forme estetiche, un’urgenza comune: l’urgenza di scardinare in vari modi i meccanismi della comunicazione, di mostrare in scena il giocattolo rotto, spaccato, per poterne mostrare il funzionamento7. Il capitale che il teatro si porta dietro, in questa riflessione, è la messa in discussione dell’idea di “rappresentazione” (in quanto elemento di finzione) che ha agitato le acque del dibattito teatrale praticamente durante tutto il Novecento. Il risultato – come a sottolineato Andrea Porcheddu durante l’incontro su «One Day» – è che oggi ad esempio è possibile assistere a spettacoli, in tutta Europa, che recuperano meccanismi di racconto e “messa in scena” ma che allo stesso tempo presentano quel fenomeno, mutuato dalla performing art, della “scomparsa del personaggio” (ovvero quando gli attori stanno sulla scena in quanto se stessi, e non perché stanno cercando di materializzare uno specifico personaggio). E questa coesistenza – al contrario di quanto avverrebbe in letteratura, dove si finirebbe subito nel campo nell’esperimento metaletterario – non dà all’opera un alone di metateatralità. Al contrario, recupera il patto comunicativo con lo spettatore sulla base del fatto che assieme a lui l’attore smonta la comunicazione abituale e i suoi meccanismi.
Tornando a quel teatro che sta facendo ricorso al ciclo e all’epica, esso pur immergendosi nelle acque agitate del Pop si porta in dote questa complessa e inesauribile riflessione dell’arte teatrale sulla finzionalità. L’essere obsoleto del medium teatrale, rispetto ad una post-modernità fatta di ipermedia digitali, fa sì che il posticcio della costruzione mediale della realtà sia in teatro sempre presente ed esplicito: gli attori (e dietro di loro i registi) devono costantemente interrogarsi su cosa dia loro il diritto di stare in scena, ovvero su cosa consenta loro di essere credibili di fronte a chi li sta a guardare. Non possono richiamarsi a un patto comunicativo che gioca sull’immedesimazione per così dire “immersiva” (come nel cinema, ad esempio, o nella letteratura), perché lo spettatore non è da solo davanti all’opera teatrale: ne è invece egli stesso una parte, perché senza lo spettatore il teatro non può fisicamente avvenire. Il grado zero del teatro è sempre e comunque l’incontro (anche fisico) tra esseri umani, tra spettatore e attore, e se c’è immedesimazione essa deve necessariamente passare per le dinamiche dell’incontro e del dialogo, del mettersi in relazione. Si tratta di un dato pratico che ha però un valore semantico preciso. Un aspetto del teatro che fa il palio a quanto afferma il regista Massimiliano Civica a proposito dell’autoralità in teatro: «Il regista e gli attori diventano un multinarratore che racconta al pubblico e si determina qualcosa che travalica la comprensione del singolo per dar luogo a un terzo. Chi l’autore di uno spettacolo teatrale? Secondo me nessuno: a teatro è sempre un terzo magico che parla ed è costituito dalla relazione8». Se a questo ragionamento aggiungiamo il terzo vertice del triangolo che dà vita a uno spettacolo, e cioè il pubblico e la sua percezione, possiamo immaginare il teatro come qualcosa che si manifesta in un luogo ipotetico che è l’intersezione dove tutti questi soggetti si incontrano. Se vogliamo, da questo punto di vista, il teatro è un’arte decisamente più concettuale di tante altre arti.
La scelta del ricorso all’epica e al ciclo, allora, non essendo alla base del patto comunicativo del teatrante con lo spettatore, non rischia di invischiarsi in un meccanismo retorico del quale si tenta uno smontaggio costante – almeno in un certo tipo di teatro. L’epica si delinea quindi come il tentativo di invenzione di una linea narrativa complessa e stratifica, che tuttavia non giustifica di per sé l’operazione teatrale, semplicemente perché è “di grande respiro” o “ben fatta”, come una serie tv, ma perché inventa una forma nuova dal potenziale “rivoluzionario” nel senso espresso da Spregelburd.
Ciò vuol dire che nel teatro il ricorso all’epica è un fatto positivo e non lo è nella letteratura? Ovviamente non si può porre la questione in modo manicheo. Come ho già affermato le opere, siano esse di teatro che di letteratura, si possono giudicare solo per ciò che valgono e non per l’adesione ad una teoria piuttosto che ad un’altra – e per fortuna. Credo però che il ricorso all’epica non possa delinearsi come fatto virtuoso in sé – “etico” nell’accezione proposta prima – se non affronta il suo stretto legame con un alto dei vertici del triangolo della post-modernità: il Pop.
Che poi l’epica possa essere considerata il nostro pass per la fuga dalla post-modernità è tutto da verificare. Non può allontanarsi dall’Iper senza negare se stessa, e difficilmente rinuncerà al Pop perché è la carta che gioca per avvincere lo spettatore/lettore. Nella sua negazione del Post, tuttavia, disegna un orizzonte più vasto verso cui guadare che già permette di respirare meglio, di annusare un’aria meno viziata. E non è cosa da poco.

Graziano Graziani
10 dicembre 2010

1 Per altro Rafael Spregelburd è autore anche di un altro ciclo, la «Eptalogia di Hieronymous Bosch», uscita in Italia in due volumi per Ubulibri, a cura di Manuela Cherubini.
2 Wu Ming «New Italian Epic», Einaudi Stile Libero 2009.
3 «Free Italian Epic» di Carla Benedetti, articolo apparso su www.ilprimoamore.com l’11 marzo 2009 e, in forma ridotto e col titolo «Stroncatura epica», su L’Espresso n°10 del 12 marzo 2009.
4 Il riferimento non è a un testo scritto, ma a l’intervento che ha fatto il regista dell’Accademia degli Artefatti a Novo Critico in occasione della presentazione di «One Day».
5 «Teatro e Telenovela», intervista di Graziano Graziani a Rafael Spregelburd, da Lo Straniero n°126-127 – dicembre 2010 / gennaio 2011.
6 «Siamo ancora postmoderni?» di Maurizio Ferraris, articolo apparso su La Repubblica del 19 giugno 2010.
7 Vedi a questo proposito il saggio «La realtà allo stato gassoso. Uno sguardo ai teatri degli anni Duemila» di Graziano Graziani, in corso di pubblicazione in forma di articolo su www.altrevelocita.it a dicembre 2010.
8 Massimiliano Civica intervistato da Attilio Scarpellini, in «Sogno nella notte dell’estate» di William Shakespeare nella traduzione di Massimiliano Civica, a cura di Attilio Scarpellini, Editoria&Spettacolo 2010.

mercoledì 1 dicembre 2010

incontro finale di Novo Critico

venerdì 3 dicembre ore 18
OPIFICIO TELECOM ITALIA

Via dei Magazzini Generali



INCONTRO FINALE
Novo Critico 2010

appuntamenti tra critica e nuova scena performativa


Si terrà venerdì 3 dicembre alle ore 20, presso l’Opificio Telecom Italia sede di Romaeuropa Fondazione, l’incontro finale di Novo Critico. L'incontro sarà preceduto alle ore 18,30 da una riflessione sullo stato della critica che prenderà spunto dal libro "Questo fantasma: il critico a teatro" di Andrea Porcheddu, redattore di delteatro.it e docente Iuav a Venezia, e Roberta Ferraresi.
Otto compagnie di teatro e due di danza hanno incontrato la critica in un contenitore ad hoc, unico nel suo genere in tutta Italia. Un progetto ideato da Elvira Frosini in collaborazione con amnesiA vivacE e le Università La Sapienza Roma Uno e Tor Vergata Roma Due, per un dialogo fra artisti, critici e studenti.

La seconda edizione di NOVO CRITICO – Appuntamenti tra critica e nuova scena performativa ha avuto il sostegno dell’Assessorato alle politiche educative, scolastiche, della famiglia e della gioventù del Comune di Roma, il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Roma ed è stato arricchito dalle collaborazioni con le Università La Sapienza Roma Uno e Tor Vergata Roma Due, con il partenariato della Fondazione Romaeuropa, da sempre attenta a mostrare ed attuare un percorso di attenzione e sostegno ai nuovi fermenti e linguaggi della contemporaneità.
Dieci incontri ad ingresso gratuito in diversi spazi della città (Spazio Kataklisma, in zona Pigneto, Università Romadue, Kollatino Underground) dove gli artisti hanno presentato una prova aperta della nuova produzione oppure un estratto di lavoro che delineasse il loro percorso artistico. A seguire il critico coprotagonista dell’incontro è intervenuto elaborando riflessioni sulla produzione in scena, gestendo un dialogo con l’artista e il pubblico sul percorso creativo in atto, sulle pratiche adottate e sul processo di elaborazione.
Non solo una rassegna, dunque, ma un percorso aperto di performance, prove aperte e work in progress attuato insieme ai critici, avvicinandoli agli artisti e al loro lavoro, in un calendario di appuntamenti che ha avuto lo scopo di delineare una nuova pratica di riflessione ed uno scambio dialettico tra artisti della scena contemporanea, la critica e il pubblico presente, con particolare attenzione agli studenti universitari, grazie al laboratorio critico seguito da Donatella Orecchia e da Roberto Ciancarelli.




giovedì 21 ottobre 2010

MATERIALI E RIFLESSIONI - Primo incontro

LE RIFLESSIONI CRITICHE DI NICOLA VIESTI



Già dal titolo - “Aldo Morto, tragedia” - il nuovo lavoro di Daniele Timpano suppone una qualche intimità con la figura dello statista democristiano, una mancanza di “timore sacro” per l'argomento trattato che in maniera netta – e questo nell'incontro romano veniva fuori con estrema evidenza – marcava uno scarto generazionale. Scarto che faceva insorgere non pochi equivoci sul valore “politico” dell'operazione rifiutato quasi con estremo sospetto dal pubblico non ancora trentenne. Pubblico che inseriva Moro nella galleria di personaggi precedentemente trattati da Timpano come Mussolini e Mazzini, storicamente abbastanza lontani e quasi immuni da una precisa scelta tra “sinistra” e “destra” per il performer e per il suo pubblico. In realtà così non è perché argomenti simili sono necessariamente e assolutamente politici e non si tratta, ovviamente, di “sinistra” e “destra”, ma di lettura storica fatta con occhio scaltro e distante che l'artista compie in forma estremamente originale e stimolante per suscitare ampio dibattito. “Dux in scatola” ha irritato non pochi che vi vedevano quasi una specie di esaltazione del fascismo nel far parlare un corpo senza vita ; ma quel corpo – il corpo del Duce – non poteva che raccontare la sua verità e la verità di un corpo massacrato è quella che è, fatta di offese alla carne che Timpano si guarda bene di omettere come non nasconde tutto un armamentario di cianfrusaglia fascista che sopravvive ancora oggi. E che dire ancora di un corpo, quello di Mazzini nel “Risorgimento Pop”, che svela montagne di retorica e che illumina un presente abbietto che – orrore! - ci sembra figlio quasi diretto dei “Padri della Patria”. Con Moro l'operazione mi sembra ancora più ambigua e pericolosa perché la differenza generazionale non è così marcata e moltissimi ancora ricordano i dubbi scatenati dal terribile periodo del suo sequestro e della sua esecuzione, entrambi iconizzati, e non a torto, in quanto l'evento è di quelli cardine per il destino di una nazione – quasi un nostro attentato alle Torri Gemelle – e sicuramente ne ha condizionato le non invidiabili sorti attuali. In una primissima stesura, un frammento quasi, “Aldo Morto” era di una spietatezza e spregiudicatezza assolute, tale che dopo la lettura inviai una mail a Daniele dicendogli che questa volta doveva prepararsi ad un soggiorno nelle patrie galere. Lui si augurava che non volessi fargli mancare le arance. Nella successiva elaborazione per “Novo Critico” il testo si è completamente trasformato con la bella intuizione di inserire il personaggio del figlio che ricorda e che è tutt'uno con il performer. E la violenza precedente si è trasformata completamente, lasciando spazio ad una intimità quasi affettuosa con un personaggio fotografato nella vita e nei sentimenti. E' successo che alcuni sono rimasti troppo scossi dai primi appunti ma anche che Daniele, man mano che approfondisce la figura di Moro, ne sta rimanendo colpito, sta mettendo in crisi precedenti certezze. Vedremo dove tutto ciò lo porterà.


Novo Critico” mi sembra un modo costruttivo e intelligente di mettere in relazione artista, opera, critica e spettatori. Discutere su un lavoro in fieri è utile a tutti; all'artista che verifica l'efficacia delle sue idee, al critico che interviene su frammenti in divenire azzardando probabili scenari e al pubblico che cerca di andare oltre una passività istituzionalizzata. Devo confessare che mi aspettavo – data una partecipazione prevalentemente di addetti ai lavori – un qualche match tra pubblico e critico. Cosa che mi è stata risparmiata per il tempo tiranno e per il sostanziale disinteresse degli spettatori verso una cosa del genere. Sono stati forse troppo buoni, o troppo scafati. Insomma non capita spesso di avere sotto mano un critico con la possibilità di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Va bene scambiarsi opinioni sul lavoro dell'artista della settimana ma non posso pensare che il rapporto con la critica fili così liscio. Qualcosa da recriminare dovrebbe – e c'è – sempre. Lo dico non per scatenare la rissa o per attivare una specie di sadomasochismo reciproco ma perché sono fermamente convinto che parlare con gli artisti, e con il pubblico, faccia benissimo proprio in primis al critico, a volte troppo protetto, troppo distante, troppo legato al “prodotto finito” e quasi mai conscio del lavoro, delle contraddizioni o delle sicurezze che lo hanno generato. E “Novo Critico” penso sia il luogo ideale per una verifica di questo genere. D'altronde l' autorevolezza della critica non risiede in una sua incontestabile infallibilità ma nella possibilità di affermare proprio un punto di vista, parziale, a volte fallibile, ma con l'imperativo di essere sempre suffragato da motivazioni quanto mai chiare. La rivista “Hystrio” qualche tempo fa pubblicava per alcuni spettacoli due pezzi, uno positivo e uno negativo : una bella palestra per confrontarsi con “l'altro” e per i lettori la possibilità di chiarirsi – o confondere ancor più – le idee. Va da sé che per l'artista la critica giusta era sempre quella positiva.
Nicola Viesti
19 ottobre 2010

PRIMA SERATA : DANIELE TIMPANO E NICOLA VIESTI

PRIMA SERATA : DANIELE TIMPANO E NICOLA VIESTI Il video integrale



realizzato da e-theatre.net

sabato 16 ottobre 2010

OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO



OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO
coordinato da Donatella Orecchia Roberto Ciancarelli


Osservatorio studenti RomaDue

Giada Oliva
Francesca Bini
Maria Rita Di Bari
Laura Pacelli
Agnese Valle


Osservatorio studenti RomaUno

Elena D'Angelo
Francesca Magnini



Novo Critico 2010: primo studio di Aldo Morto,
Daniele Timpano incontra Nicola Viesti.

Immagini frammentarie, ricostruzioni vere e verosimili, popolano il nuovo lavoro di Daniele Timpano, ancora in piena fase di allestimento. L’attore si confronta con l’orizzonte d’attesa di un pubblico ristretto e con l’occhio (più o meno attento) della critica. In scena, lo specchio deformato e deformante della memoria storica collettiva, a sondare ancora una volta i complessi meccanismi di creazione e ricezione comunicativa.
Aldo Moro muore il 9 Maggio del 1978 dopo 55 giorni di sequestro. Stampa e televisione ricordano un numero perfetto, includendo nel proprio calcolo un’ immagine che ormai appartiene a tutti indistintamente. Bianco e nero, corpo assassinato, scoperto, martirio (demo)cristiano: "Fate presto", avrebbe detto Andy Warhol. Nel passaggio della morte da archetipo a cliché, nota qualcuno tra il pubblico, si inserisce il tono dissacrante di una recitazione schizofrenica; i fatti di cronaca si fondono alla rielaborazione personale e artificiale dell’arte e il disagio ricettivo sembra esserne la conseguenza necessaria. L’inattendibilità posta volontariamente alla base del lavoro crea uno scarto critico che mira a riattivare le facoltà percettive del pubblico.
Timpano irretisce con disinvoltura, provoca, senza che ci si accorga subito della portata della provocazione. Continui avvicinamenti e distanziamenti dall’oggetto, irritano e divertono. A ferire, è soprattutto il dato inventato. All’apertura del dibattito c’è chi lamenta la mancanza di un’esplicita presa di posizione morale e chi si domanda se il teatro di Timpano debba essere inteso come atto politico. I tempi sono tali e i confini così poco netti, minacciati da continue ridefinizioni e ambiguità, che sembra necessario tornare a riflettere sul rapporto tra teatro e politica, o tra il Teatro e il Politico. Si potrebbe esprimere, di prima battuta, lo stupore nel vedere i due termini così disgiunti. D’altronde sono l’uso del linguaggio e la difficoltà di dare un nome alle cose, le spie più importanti di un’odierna confusione di pensiero e di un desolante smarrimento di bussole guida. Andando al di là del semplicistico schieramento tra destra e sinistra (che pure non manca), o delle personali opinioni divulgate, Timpano sceglie di far reagire tutto ciò che di Moro è stato scritto, filmato, ricordato. L’efficacia di questa operazione è data dalla presenza in scena di un corpo scosso e deflagrato che destruttura un’iconografia comune, aprendo alle più svariate possibilità di costruzione. Sono la fisicità e la concretezza del corpo attoriale a creare un vero e proprio cortocircuito con le molteplici proiezioni storico-culturali, ombre mediatiche del caso Moro.

Francesca Bini e Giada Oliva
Osservatorio Critico Università Roma2
14 ottobre 2010

giovedì 14 ottobre 2010


Quando salta la giacca

La distanza dai fatti spesso permette una chiarezza analitica che può sfuggire all’emotività di chi li vive. Se, invece, tale distanza fosse il metro per avanzare una ricerca che persegue l’inciampo, che innesca il dubbio, che mostra la relatività della realtà secondo il punto di vista di chi scruta o guarda sottecchi o affina lo sguardo o sbarra gli occhi, cosa accadrebbe? Ci si potrebbe trovare a farsi travolgere da un magma di parole e improvvisi silenzi ed osservare gesti calibrati, a volte esacerbati, altre pacati, che procedono per opposizione e innescano tramite la reiterazione un ritmo ben definito: quello del teatro di Daniele Timpano. La pluralità dei tempi, memoria personale e collettiva, ricostruzione storica e realtà contemporanea (il presente dell’artista, il suo vissuto che filtra) si intrecciano e insediano nel corpo dell’attore, propriamente calato dentro abiti borghesi che raccontano un’ufficialità apparente e possono improvvisamente andare stretti. La giacca ad un tratto fa soffocare, viene tolta con furia, vola a terra. Poi di nuovo viene indossata.
L’inquietudine è in agguato, si percepisce un ambiguo che non approda a soluzione, una sospensione che se muove al riso subito dopo colpisce per stringere nel dubbio e che svela un Timpano che si dibatte tra cattiveria dissacrante e pietismo che seda l’iniziale partitura. Di questo si è trattato nella fase successiva alla presentazione del frammento dell’ultima creazione di Timpano “Aldo Morto”, dove l’artista, il critico che lo ha intervistato e gli spettatori hanno discusso sull’evoluzione dello spettacolo con un’interessante retrospettiva dell’opera di Timpano e della sua accoglienza presso il pubblico e le giurie di addetti ai lavori, per poi estendere il discorso sui doveri del teatro, sulla capacità di esso di agire nella vita pubblica. Ne è nato un confronto che per l’artista risulta elemento di formazione e informazione utile ai futuri sviluppi del suo lavoro e per lo spettatore, che interviene attivamente, momento di riflessione sul teatro, sul proprio modo di intenderlo, scoperta della fucina creativa di un attore, drammaturgo, regista che anche fuori della scena sfugge come un fluido a nette classificazioni.


Laura Pacelli
Osservatorio Critico Università Roma2
14 ottobre 2010

martedì 12 ottobre 2010

DEPOSITO CRITICO 1

di Roberto Ciancarelli


Alcune telegrafiche considerazioni:
Come riuscire a fare in modo che il dibattito non devitalizzi l’esperienza?
Come è possibile un’integrazione tra fatto artistico e operazione critica o per meglio dire come è possibile un dialogo in presenza tra critico, pubblico e artista che sia davvero un arricchimento e un completamento dell’esperienza?

Per tornare al trascorso "famigerato" dibattito, credo che il nodo cruciale non sia tanto la definizione di “teatro politico”, che peraltro, come è stato riconosciuto, come formula ha poco senso, vero problema invece quando si prende a prestito il linguaggio della politica ("sei di destra?, sei di sinistra?") e si cade a piedi uniti nella trappola di una storia legata a un personaggio della storia.
E ancora: la distanza dell’artista (o al rovescio) la sua adesione al tema esplorato sono unità di misura critiche che funzionano davvero?

Altra considerazione: il dibattito ha senso se gli spettatori si rendono conto che questo innaturale prolungamento può servire a far affiorare indizi della qualità della loro presenza (del loro essere in relazione con l’esperienza, del loro “stare con”, ovvero se serve a ricapitolare, tra le diverse modalità di percezione dell’esperienza, quelle per noi spettatori più autentiche problematiche e significative). A questo proposito l’intervento-spettacolo di Simone Carella ha avuto il merito di spostare l’attenzione sul fuoco della relazione: "il teatro se lo mangia l'attore, l'attore se lo mangia il personaggio", come dire che tutto è concentrato in questo sistema di scatole cinesi, in questo sistema che ha un suo linguaggio compiuto e autonomo che va riconosciuto, il resto (il resto e gli altri linguaggi) per ora non mi riguardano…

Infine: sono d’accordo con Nicola Viesti che aveva iniziato dicendo che il tema scelto da Daniele suscita, anzi “scatena “ aspettative, verissimo, ma come il dibattito ha poi dimostrato, questo tema scatena aspettative e cortocircuiti per chi quell’esperienza per ragioni anagrafiche e soprattutto di generazione l’ha vissuta (come coscienza, come disvelamento-rivelazione della Storia, come separazione e spartiacque tra il prima e dopo della Storia, come espansione e tragica messa in luce della Storia… ). Per chi non c’era o era troppo piccolo, non c’è nessuna differenza tra Mazzini Mussolini Moro, tutti inevitabilmente assimilati a personaggi del passato.

In coda: nessuno ha parlato di quello che da questo Studio si è depositato nella memoria, che poi è un modo per ricostruire l’operazione drammaturgica di Daniele, l’uso e la selezione delle sue fonti, i suoi comportamenti scenici etc, eppure , immagini da infilare come perline a una a una ci sarebbero: l’immagine di un’arancia tagliata con cura, l’immagine di un uomo vestito di tutto punto giacca e cravatta sulla spiaggia, una lettera stracciata…


12 ottobre 2010

PRIMA SERATA - IL VIDEO




a cura di KLP

INTERVISTA DI KLP A DANIELE TIMPANO E NICOLA VIESTI

mercoledì 6 ottobre 2010

 Il primo appuntamento in calendario è 


Venerdì 8 ottobre ore 21
SPAZIO  KATAKLISMA
Via G. De Agostini 79 - Roma




DANIELE TIMPANO incontra NICOLA VIESTI



Nel primo incontro di Novo Critico:
Aldo morto
Primo studio


di e con Daniele Timpano
collaborazione alla regia Elvira Frosini, Alessandra Di Lernia
drammaturgia, regia, interpretazione Daniele Timpano


Aldo Moro è morto il 9 maggio 1978. Un assassinio che ha sconvolto l’Italia.
Un attore nato negli anni '70, che di quegli anni non ha alcun ricordo o memoria personale,  ricostruisce la vicenda del tragico sequestro che ha segnato la storia della Repubblica italiana.
In scena, assieme al suo corpo e a pochi oggetti, solo la volontà di affondare fino al collo in una materia spinosa e delicata senza alcuna delicatezza e senza alcuna retorica o pietismo.
Daniele Timpano, autore, attore e regista teatrale, abituato a confrontarsi con personaggi storici come Benito Mussolini “Dux in scatola. Autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito” (2006), finalista al Premio Scenario 2005, pubblicato in volume da Coniglio Editore nel 2006 e sulla rivista di teatro Hystrio nel 2008; e Giuseppe Mazzini “Risorgimento pop - memorie e amnesie conferite ad una gamba” (2009, in collaborazione con Marco Andreoli/Circo Bordeaux) affronta adesso la figura dello statista democristiano ucciso dalle Brigate Rosse.


Daniele Timpano (Roma, 1974) è autore, attore e regista di teatro. Come attore ha lavorato con Michelangelo Ricci, Francesca Romana Coluzzi, Massimiliano Civica. Fondatore del gruppo 'amnesiA vivacE', ha scritto e interpretato: Storie di un Cirano di Pezza (1998); Teneramente Tattico (1999); Profondo Dispari (2000); Oreste da Euripide (2001); caccia 'L drago da J. R. R. Tolkien (2004), vincitore della terza edizione del premio Le voci dell'anima - incontri teatrali); Gli uccisori del chiaro di luna da Marinetti e Majakovskij (2005); dux in scatola. Autobiografia d’oltretomba di Mussolini Benito (2006), finalista al Premio Scenario 2005, pubblicato in volume da Coniglio Editore nel 2006 e sulla rivista di teatro Hystrio nel 2008; Ecce robot! Cronaca di un'invasione (2007), ispirato all'opera di Go Nagai (Jeeg Robot, Goldrake, Mazinga) e pubblicato in volume all'interno dell'antologia "Senza corpo - voci dalla nuova scena italiana" a cura di Debora Pietrobono [Minimum Fax, 2009]; Negative film #1(2009, in collaborazione con Lorenzo Letizia); Risorgimento pop - memorie e amnesie conferite ad una gamba (2009, in collaborazione con Marco Andreoli/Circo Bordeaux) e Sì l'ammore no (2009, in collaborazione con Elvira Frosini/Kataklisma), finalista al Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche "Dante Cappelletti" nel 2008.
È redattore della rivista on line www.amnesiavivace.it e di Ubu Settete, periodico di critica e cultura teatrale. È stato tra gli ideatori e organizzatori della rassegna romana Ubu Settete – fiera di alterità teatrali.


Nicola Viesti vive e lavora a Bari. Ha collaborato con il quotidiano Barisera e attualmente scrive per il Corriere del Mezzogiorno, per il trimestrale Hystrio e per la rivista telematica dedicata al teatro per l'infanzia Eolo. Ha fatto parte della giuria dei premi Eti/Stregagatto, Scenario, Eti/Gli Olimpici del Teatro. Ha curato gli eventi spettacolari per la prima edizione della "Primavera dei diritti".

ingresso libero su prenotazione

    info e prenotazioni:
tel 349 2834261
novocritico@gmail.com
appuntamenti tra critica e nuova scena performativa


Otto compagnie di teatro e due di danza incontrano la critica in un contenitore ad hoc, unico nel suo genere in tutta Italia. Un progetto ideato da Elvira Frosini in collaborazione con amnesiA vivacE e le Università La Sapienza Roma Uno e Tor Vergata Roma Due, per un dialogo fra artisti, critici e studenti e con il partenariato della Fondazione Romaeuropa, da sempre attenta a mostrare ed attuare un percorso di attenzione e sostegno ai nuovi fermenti e linguaggi della contemporaneità.


Si apre l’8 ottobre la seconda edizione di NOVO CRITICO – Appuntamenti tra critica e nuova scena performativa, un progetto che si rivolge al ricco fermento dei linguaggi della nuova scena performativa, e prevede la partecipazione di dieci compagnie di teatro e di danza provenienti dal territorio romano e da quello nazionale, per offrire un panorama articolato e approfondito sulla nuova scena e il rapporto con la critica e il pubblico

Dieci incontri ad ingresso gratuito, pomeridiani o serali, in diversi spazi della città (Spazio Kataklisma, in zona Pigneto, Università Romadue, Kollatino Underground) dove gli artisti presenteranno una prova aperta della nuova produzione oppure un estratto di lavoro che delinei il loro percorso artistico. A seguire il critico coprotagonista dell’incontro interverrà elaborando riflessioni sulla produzione in scena, e gestirà un dialogo con l’artista e il pubblico sul percorso creativo in atto, sulle pratiche adottate e sul processo di elaborazione.

Non solo una rassegna, dunque, ma un percorso aperto di performance, prove aperte e work in progress che si attua insieme ai critici, avvicinandoli agli artisti e al loro lavoro, in un calendario di appuntamenti che ha lo scopo di delineare una nuova pratica di riflessione ed uno scambio dialettico tra artisti e gruppi della scena contemporanea, il pubblico e la critica, in particolare la “nuova critica”, scelta non solo come interlocutore privilegiato, ma anche e in primo luogo come attore di questo processo.

Fra i partner del progetto, inoltre, ci sarà Krapp's Last Post, klpteatro.it, rivista in rete specializzata nella critica e la diffusione della cultura teatrale, che realizzerà interviste video ai critici e agli artisti pubblicandole su web, e i video documentativi degli incontri. Il lavoro e la complessità delle implicazioni, le domande, le questioni emerse saranno quindi continuamente monitorati e pubblicati, rendendo possibile anche un ampliamento del dibattito e della riflessione.

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