lunedì 31 gennaio 2011

OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO - Nono incontro

Nono incontro - 12 novembre 2010
Novo Critico 2010. Ambra Senatore incontra Rodolfo Sacchettini




Passo
Parrucca verde, Vestito nero.


Immobile. Sotto il bagno di luce della lente Fresnel. Parrucca nera. Vestito verde. Il corpo esatto, come una figurina di cartone ritagliata con precisione estrema. Lentamente si anima. I primi istanti si popolano di movimenti robotici, inumani. Il corpo studia lo spazio, si intrattiene con le dinamiche del disequilibrio e della frammentazione, tagliando l’aria della piccola scena 4x4. Il silenzio della sala è animato dal respiro e dal ritmico scricchiolare delle tavole di legno. Poi: la musica. Il movimento si fa più fluido. Il mio occhio s’abitua, riconosce, non segue più col dito incerto le lettere di uno strano alfabeto, ma riesce a leggere parole, persino intere frasi.
L’immagine si moltiplica. Due corpi identici che in maniera identica si muovono nello spazio, raccontando una storia di gesti quotidiani, consueti. La mano che sistema i capelli dietro l’orecchio: istantanea di un’umanità che vuole rivelarsi nel flusso dell’agire danzato. Dalla superficie indistinta del movimento affiorano come guizzi dettagli che svelano l’individualità, spesso legati ad un errore volontario nell’esecuzione della coreografia. Come a dire: è nella deviazione dalla norma che l’individuo può sperare di affermare la propria unicità.
Tra gli applausi i miei occhi aspettano ancora, da dietro la tenda: Parrucca nera, Vestito verde. O ancora meglio: Parrucca verde, Vestito nero.

Elena D'Angelo
Osservatorio critico Roma1





L’inciampo

Che una caduta inaspettata generi uno scoppio di ilarità, immerga nel comico l’osservatore è dato per assodato, Charlie Chaplin e Buster Keaton la praticavano alla perfezione, da veri maestri dell’inciampo, si pensi al formidabile duetto in Luci della ribalta. La teorizzazione pirandelliana viene ad informare che il passaggio dal comico all’umorismo è un passo, breve. L’osservatore s’accorge della sofferenza del malcapitato, la sua risata si spegne. Il confronto coi grandi nomi può spaventare, perciò Ambra Senatore ha riposto in un cantuccio due regali, un libro e un cofanetto di dvd su Keaton, destinati a future letture e visioni, quando non avrà più il timore del paragone con quel grande cui non di rado viene accostata per le formule del suo teatro danza, dove alberga lo stupore, causato da un apparente imprevisto. Tutto in realtà è studiato alla perfezione; il doppio, un piede che cede, una parrucca che vola, una mano che si stacca vengono inseriti ad arte per stupire, disorientare. Contro la sicurezza, che vuol tornare ad insediarsi, immediata deve nascere una nuova forma, che sia tableau vivant o fermo immagine, capace di stupire ancora: perché nel futuro spettacolo di Ambra Senatore la danza sia come la vita, di continuo soggetta a metamorfosi, afferrabile e definibile per poco, poi di nuovo in evoluzione. Un incontro piacevole quello che segue la presentazione del lavoro, in cui giustamente il critico Sacchettini lascia che la Senatore continui a fare teatro mentre parla del proprio teatro.

Laura Pacelli
Osservatorio critico Roma1


Questione di tempi

Daria Deflorian ha scelto di non presentare alcun primo studio.
Da sottolineare questa volontà, non dettata dalle circostanze, di soffermarsi con e sulle idee prima di metterle in pratica. James Hilmman le fornisce il sostegno teorico “[...]le idee perdono vitalità quando vengono concretizzate. Devono essere covate per farne uscire di migliori”.
Ecco mi pare buona cosa questo suo non cedere all'ansia del risultato, al ricatto della formalizzazione e della produzione immediata. La necessità quindi di sostare, assecondare i tempi del pensiero,e non precipitarsi.
E' il rifiuto di quella che la Deflorian definisce la “condanna dell'esposizione”.
Che un artista cerchi il confronto col pubblico in questa fase iniziale di creazione, è raro.
Quando ad esistere è solo l'idea, nuda, senza ancora una traduzione scenica, esporsi al giudizio esterno può essere prematuro ma anche stimolante.
Ambra Senatore, diversamente dalla sua collega ha scelto di non cogliere questa occasione. Ci ha mostrato un estratto da “Passo”, spettacolo che ha già avuto modo di girare e ricevere riconoscimenti. Ha ritenuto opportuno dover necessariamente “mostrare”. Difatti il nuovo lavoro quello annunciato, tarda a vedere luce. La Senatore ce lo fa intuire nella discussione con il critico Rodolfo Sacchettini , esponendo anche i propri dubbi in merito alla sua idea iniziale : costruire un percorso di movimenti che compongano immagini cinematografiche. Nel dichiararsi probabilmente non all'altezza delle sue intenzioni , e nell'esprimere la preoccupazione di venir meno ad una certa tempistica, la Senatore ci ricorda che la creazione ha i suoi tempi. Tempi spesso dilatati, che possono portare a non essere “in tempo”. E mentre pensa e tentenna, ci racconta di come l'osservazione della realtà sia la sua principale fonte d'ispirazione: l' anziano marito che aiuta la moglie a salire tirandola lentamente per un braccio è un intero mondo di gesti, pose e atteggiamenti.
Errare è umano, si dice.”Passo” è volutamente disseminato di errori o “pennellate di umanità”, che intaccano l'apparente perfezione della danza. L'umanità è tutta in quelle mancanze,i n quei vuoti, in quel qualcosa che non torna e che devia dalle aspettative, è nel rifiuto della pienezza e della riproducibilità. Tutto questo è anche molto ironico. Ci si chiede allora cosa sia l'ironia e ci si interroga su i meccanismi del comico, che sono imperscrutabili e di difficile spiegazione. La comicità è in fondo una questione di tempi, non riproducibili con esattezza e precisione.

Giada Oliva
Osservatorio critico Roma2




giovedì 20 gennaio 2011

OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO - Ottavo incontro

Ottavo incontro - 10 novembre 2010 

Novo Critico 2010. Daria Deflorian incontra Katia Ippaso



Sé come un altro.

Trattenersi, non mostrarsi per evitare l’eccessiva immediatezza e il finalismo progettuale.
Daria Deflorian sceglie per il pubblico di Novo Critico il racconto dell’idea cardine di Reality, futuro spettacolo che la vedrà protagonista insieme ad Antonio Tagliarini. Nessuna rappresentazione dunque, ciò che abbiamo al momento è la folgorazione di un inizio, l’incubazione entropica di un’idea. L’incontro con il soggetto, racconta l’artista, avviene durante un’assolata domenica di marzo: Daria si imbatte per caso nella storia di Janina Turek, casalinga di Cracovia che dal 1943 al 2000, anno della morte, racconta i dettagli della propria quotidianità senza interruzione e senza mai renderli pubblici. A poco a poco, la scrittura diventa il suo mestiere: i più banali e irrilevanti dettagli vengono annotati su 748 quaderni, quasi si trattasse di libri contabili. Janina non scrive mai di sé, e quando accade lo fa in terza persona, guardandosi vivere. L’intuizione artistica è imperiosa, categorica; il primo impatto fortemente emotivo. Ossessione patologica o meno, poco importa. Il racconto della Deflorian è commovente e commosso, la sua immagine della donna che spiò se stessa quasi come fosse una necessità imprescindibile, è felice e rispettosa. Forse ancora troppo partecipata. Per la domanda di Katia Ippaso sulle modalità della messa in scena non c’è ancora  una risposta precisa. Ciò che è certo sono i molteplici interrogativi che la storia pone agli artisti e al pubblico. E il futuro titolo sintetizza e non lascia scampo: Reality contiene in sé il rapporto tra il reale e la sua rappresentazione. Ci troviamo ancora una volta a riflettere sul paradosso del Teatro, che è per definizione vita artificiale, si, ma partecipata, e che tanto si discosta da quella voyeuristica visione da guardoni che è propria invece del moderno Reality Show. Bisogna lavorare per sottrazione allora, ad eliminare del tutto quel termine mancante. E’ lo stesso lavoro di Janina ad aprire la strada mettendo in gioco la dialettica tra pubblico e privato, tra dicibile e ineffabile. Apparentemente i suoi scritti sembrano inserirsi in un circuito chiuso che elude tanto la dimensione del proprio vissuto emotivo, quanto quella collettiva. Una macchina puntigliosa ferma sulla carta significanti sterili e matematici, dove pathos e ethos si annullano. Eppure, sostiene la Deflorian, l’azione di questa donna sembra aver a che fare con un altrove non raccontato, con una dimensione metafisica da indagare, quasi che la scelta volontaria fosse quella di celare l’essenziale. Inoltre, aggiungiamo noi, se da una parte il soggetto sembra oggettivarsi solo attraverso un’indagine privata e analitica del sé, dall’altra, fanno riflettere la continuità e la decisione di conservare questi scritti. A futura memoria. Nessuna violenza dunque, così come ha suggerito qualcuno. Un tradimento necessario, certo. Di fronte ad un’individualità scissa tra il detto e il non detto – ineludibile punto di partenza- si pone lo sguardo critico dell’arte, a dialogare con la Storia passata e presente, a riflettere sulla propria identità e sulla propria dimensione quotidiana.

Francesca Bini
Osservatorio critico Roma2

domenica 16 gennaio 2011

OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO - Sesto incontro

Settimo incontro - 3 novembre 2010

NOVO CRITICO 2010 - "Studio per un manicomio"
Teatro Forsennato incontra Florinda Nardi




Teatro Forsennato incontra Florinda Nardi.

Università di Tor Vergata, Aula Moscati.
Due attori siedono sul tavolo della commissione d’esame.
Cadute le barriere didattiche ci ritroviamo in un manicomio: sullo sfondo la figura di Carlo Angela, direttore della casa di cura torinese per malattie mentali “Villa Turina Amione”. E’ qui che durante la dittatura fascista Angela salvò, facendoli ricoverare e insegnando loro a simulare le condizioni dei “veri” malati mentali, un gran numero di antifascisti ed ebrei. I protagonisti sono Enrico - Dario Aggioli- fascista che soffre di autismo, e Ferruccio – Angelo Tantillo - ebreo che finge la follia per eludere le leggi razziali.

A risposta di una domanda non formulata,
Enrico si alza: sa ciò che deve cantare e sembra goderne.
Faccetta nera..bell’ abissina…
Aspetta e spera che già l’ora s’avvicina!
Godimento autistico e più che mai illusorio di chi si sente finalmente parte di un sistema.
Enrico ha bisogno della “maschera fascista” e sarà Ferruccio, l’ebreo,
a porgergliela come se fosse un gesto quotidiano, abituale.

Il frammento della nuova produzione di Teatro Forsennato viene presentato al pubblico due volte e interrotto da una discussione tra il regista-attore Dario Aggioli, e il suo compagno di scena. Tra la rappresentazione e la teoria del suo farsi non ci sono tempi morti. La seconda volta si notano il cambiamento e in alcuni casi, le migliorie. Siamo di fronte a un atto performativo meta teatrale molto più esaustivo delle discussioni successive. All’apertura del dibattito vengono comunque chiariti alcuni punti relativi al modus operandi della compagnia: l’utilizzo di un canovaccio autoriale, la pratica improvvisativa, l’inclusione attiva dello spettatore. E’ nel manifesto programmatico di Teatro Forsennato l’intenzione di rivalutare il carattere unico e irripetibile dell’evento spettacolare, a curare il dettaglio del contingente, l’interstizio mutevole del reale. Interessante l’uso della mezza maschera della Commedia dell’arte come strumento di studio da abbandonare lungo il percorso. A tale proposito: i costanti riferimenti alla Commedia all’improvviso, necessari a nient’altro se non ad una sterile categorizzazione, sono sembrati a tratti anacronistici. Nonostante l’utilizzo di alcuni strumenti noti, la volontà della compagnia non sembra certo essere quella di un revival della Commedia dell’Arte, quanto piuttosto il riconoscimento di un metodo utile al proprio lavoro.

Ma qual è il punto secondo me importante della mezza maschera?
Che togliendosela, l’attore deve finalmente capire che è lui stesso, tutto se stesso, una maschera.
A quel punto sei diventato un attore, un attore vero.
Leo de Berardinis-

Francesca Bini
Osservatorio critico Roma2




TRITOLO&DINAMITE
L’han detto.
Forse poi l’han pure fatto.

Che tremendo risveglio l’interruzione da un sogno che ti parlava come fosse verità.
Han zittito una platea esigua,è vero,ma pur sempre rispettabile.

Forse no invece,la memoria mi zoppica e a focalizzar ben bene Dario Aggioli e Angelo Tantillo (Teatro Forsennato) il pubblico l’hanno fagocitato.

E poi gli è toccato scontarla lunga per aver affermato quel che in pochi hanno digerito.

Un ebreo che fugge morte
dal mirino della sorte
in un’epoca lontana
che esigeva razza ariana
e che fronte ad uno specchio
si trasforma nel soverchio
di sua mente sana e lucida
in un’altra tarda e impudica
che rinchiusa già dov’è
canta “    Viva il nostro Re!”
ben convinto che il regime
sia l’amico da obbedire.

Lo han detto e poi lo han fatto.

“ Nei nostri lavori,abbiamo scelto di superare gli psicologismi”.

“Stanislavskij se n’è andato!”
Questo pare ormai assodato
col suo metodo interiore
che ti suscita il fervore
per un che da recitare
come fossi tu a parlare.

Cacciavite poco pratico
tanto che ti rende apatico
della voglia d’esplorare
nuovi muri da forare.
Degli avvitatori è l’epoca
non si turbi la poetica
che se il risultato è quello
non fissarti sul fardello
di qualcosa che s’è spento.

Attenzione platea cara
la notizia non è amara
ma che a voi sia bell’è chiara:
superar NON ignorar
nonostante all’infinito
di grammatica condito
faccia rima con il verbo
che si coniuga alla prima
delle tre la più cospicua.

E’ paura quel che inganna
la risposta di un programma
che sol vede sulla forca
la sua antica e ordita trama
che sul volto alliscia e chiama
la filosofia d’un mito
che l’Aggioli ha sostituito
con proposte ben nascoste
che non sparano alla storia
ma ne cercano di nuova.

A tal punto è cosa stanca
la pretesa che v’arranca
di fissarvi sull’idea di saper
se l’ebreo e il folle (che di stile non è molle)
abbian costruito i tipi
sui colori stabiliti
dall’analisi freudiana
che sua gonna fa campana.

Fuor dal vetro invece un coro
che la psicologia è d’oro
pur mostrando che alle volte
fa da sé la buona sorte
che ti da in eredità
quattro maschere a metà
che col nuovo van riempite
di tritolo e dinamite
per qualcosa da cercare
ma altresì da superare
in quel che chiamano intelletto
dell’attor sotto al berretto
che la psiche è cosa certa
ma superata è l’era di sua scoperta.


Maria Rita Di Bari

Osservatorio critico Roma2

martedì 11 gennaio 2011

OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO - Quinto incontro

Quinto incontro - 29 ottobre 2010

NOVO CRITICO 2010 : "1° studio per : DIGERLSELZ"
Elvira Frosini incontra Massimo Marino




UN PRESEPE DIGERIBILE

In quale misura dovremmo consentire all’arte di raccontare se stessa ce lo spiega la lecita preoccupazione di un autore che durante la realizzazione del proprio parto artistico si dimostra inadeguato a prendersi la briga di vestire i panni di analista e paziente di se stesso contemporaneamente.

Quanta importanza accordiamo alle parole postume di un demiurgo che sino al precedente istante era affaccendato ad addomesticare fil di ferro per restituirlo in nastri da ritmica a chicchessia ce lo spiega invece l’insistenza (anche questa più che lecita) di un pubblico critico o meno che ha la necessità incontinente di riempire taccuini mentali con appunti precisi agognando risposte preferibilmente logiche che provengano dalle note narrative di colui che t’ha appena regalato il massimo di quel che avrebbe potuto.

Quanta sottrazione subisce il simbolo per una smania tutta umana che dia garanzia
d’esaustive spiegazioni,quanti pasti siamo soliti regalare alle audio guide,alle didascalie,ai bugiardini, l’ha smentito Elvira Frosini nell’andamento incerto e multiforme col quale ha viaggiato attraverso il curioso dibattito successivo al primo studio su“Digerseltz”,mostrando e dimostrando che l’opera d’arte non ha padroni e non accetta di essere costretta a dar conto d’interpretazioni definitive.

Senza risposte
per le aragoste
avanzò l’orecchio alle proposte
spastiche
di sentenze drastiche
che in fila col numeretto
smaniavano in sala d’aspetto
per così dire
giocarsi la briga
d’intervenir con letture votate alla sfiga.

Ella,
che ironica e baronica
ne plasmò la sostanza
non seppe azzardare
se fosse Pop il pozzo in cui cercare
o canonica la causa
giù nei riposi di santa Costanza.

Scivolò nelle scarpette
basse, elastiche e nerette
da quei sugheri rialzati
che bei chiodi li han domati
per seder di petto al branco
tolto il crine giallo stanco.

Domandò a chi l’ebbe vista
quale fosse miglior pista
se d’un personaggio rosa
o d’un coro maschio a chiosa
tutto intento a rovesciare
quel che donna tende a fare.

Non d’un opera finita
volle messaggiar schermita
ma d’un fare in divenire
che sue trame ha da cucire
che sia d’uopo la platea
nel prestarsi in assemblea
ma d’ellenica visione
non d’un talk per estensione.

Lei vorace Minotauro
bocca affoga dentro al calco
di ventenni bianco talco
che per vanto di maestà
fatti a pezzi squarterà.

Cibo a sbafo,a volontà
guarda è lei,la sazietà
che s’attacca alla condanna
di bignè gonfi di panna
al colletto impiegatizio
che gli picchia forte il vizio
di quel pomo ormai ingrigito
ben distorto in un vagito.

Tutto è scatola di latta
da ingoiare a suon di Ta-ta
perchè divorare è un’arte
pari a una partita a carte
quando arriva l’uomo giusto
via con l’asso piglia tutto
e se in men che non si dica
togli il naso dalle dita
è per dar conto allo specchio
che t’insulta che sei vecchio.

E se non mangiassi più?
Zitto,arriva Belzebù
che se il bimbo è inappetente
la paura vien che il dente
di un vampiro nel midollo
non poi tanto più indolente
venga a stuzzicarti il collo.

Quale il ponte e il suo confine
tra il mangiar e il restar fine
quale invece sia l’inganno
dell’onnivoro nell’anno
di questore in breve carica
che sua pancia riempie e scarica.

Come provocar reazione
della razza in estinzione
che s’ottenebra ingoiando
e che poi lo fa parlando
senza più posar giudizio
sull’andare del suo vizio
di cantar buon compleanno
a una festa benedetta
in cui abbrustolir capretta
tutto questo ben condito
da un cristiano,probo invito.

In ginocchio una Madonna
d’altri tempi
assai moderni
che l’ha valicato lei
il confine coi plebei
e richiama il bel convivio
d’una cena da spartire
tra lo stomaco e il cervello
che compagni in un ostello
si ritrovan paghi e sazi
della vita e dei suoi strazi.

Eccolo,il presepe vivente. Parlante. Brulicante d’uffici viziati.
Eccola,la bocca sociale impazzita,confusa tra l’ingurgitare immagini intrise di strutto e la totale astensione dal cibo.
Eccola,la bocca dove i denti del giudizio non hanno più ragione di crescere.
Eccola,la pecora nera barricata sul confine di una pazzia che non si può più sciogliere in un Digerselz.
Maria Rita Di Bari
Osservatorio critico Roma2

giovedì 6 gennaio 2011

RASSEGNA STAMPA - RIFLESSIONI


LA CRITICA CHE NON CRITICA
di Alfio Petrini

Faccio alcune riflessioni non esaustive sul teatro addormentato nel bosco, non avendo il potere magico di ridestarlo. Sonno della ragione. Sonno del corpo-mente che si fa azione. Sonno del pensiero che si fa sangue e del sangue che si fa pensiero. Il teatro non sfugge a questa condizione, perché è un tassello della grande macchina del paese reale. A questa condizione non sfugge neppure il lavoro critico.

In tempi così difficili la bella addormentata trasmigra, lascia la favola e si annida nella realtà quotidiana della polis che non c’è. Quindi anche nel teatro. Se da verbo non si fa carne, non si fa vissuto, non si fa movimento del pensiero e del desiderio, non si fa presente che ipoteca il futuro, il teatro finisce per generare ripetizione, rinuncia, difesa dello status quo, servitù politica e culturale a beneficio del potente o dell’intoccabile di turno. L’uomo di teatro - ma non solo -, crede di essere furbo o di doversi fare furbo, di essere fortunato o sfortunato secondo i casi, e non si accorge di essere caduto in catalessi. Così la stasi somiglia al movimento, la vita alla morte. Così la cultura lobbistica, la protezione politica, l’inazione, l’eliminazione del conflitto e la subordinazione dell’arte alla politica dettano le regole e producono quel mercato che è dichiarato libero, ma che libero non è. Altro che meritocrazia!

Il sonno è della drammaturgia esangue, sociologica, ideologica e materialistica, sopraffatta dall’informazione, descrittiva, mimetica. Copia e non trasforma. Pompa sentimenti. Tratta il personaggio non come un lessema, ma come un organismo vivente. Pretende di cambiare il mondo. Insegue il male per suggerire il bene, ignorando che nessun uomo è esente dal male perché lo porta con sé. Eh, già, il male sta sempre fuori di noi! I cattivi, gli imbecilli e gli incompetenti sono sempre gli altri! Bellezza estetica e buone intenzioni non salvano il mondo. Buonismo e moralismo sono la negazione dell’arte, della informazione, della produzione di coscienza critica.

Il sonno è la condizione di molta scrittura scenica che non sa entrare nella mente dello spettatore - scuoterlo, provocarlo, indurlo all’attività -, anche per effetto della paura di sbagliare, della precarietà delle fortune improvvisate, delle riforme annunciate a dritta e a manca e mai realizzate. È la condizione che attraversa le centinaia di scuole di teatro e le pagine dei manuali impegnati a formare e informare disoccupati che sognano di ‘esprimersi’, alimentando un mercato fittizio che risponde a pratiche seduttive e corrosive, in un momento storico in cui bisognerebbe avere la possibilità d’imparare a disimparare e di formare gli uomini, non gli attori, i registi o i critici. È la condizione in cui si trova la critica che non critica, perché non crede più in se stessa, perché si è rinchiusa in asfittici recinti, perché si limita a fare raccontini o a confezionare cronache cultural-mondane. E’ la condizione in cui versa la classe politica, che non ha più etica, che invece di cambiare se stessa, pensa a cambiare i cittadini, dimostrando di essere fuori posto e non dedita al lavoro che dovrebbe fare. Un male grave da cui discendono altri mali.

Siamo in piena barbarie.

Ma attenzione a non ricorrere al vezzo e al vizio dei buoni sentimenti e del bene trionfante sul male. Si può venire fuori dalla barbarie a condizione che sia compresa e non demonizzata, studiata e non condannata con sentenza passata in giudicato, accettata e non rifiutata a priori come cosa che non ci riguarda. Per andare oltre la barbarie bisogna essere barbarici. Bisogna che ciascuno assuma la barbarie in se stesso. Insomma, possiamo superarla, se pensiamo preliminarmente che non sia estranea alla nostra persona, che sia uno dei mondi possibili che ci appartengono - assunto nel vasto mondo interiore -, anche se nella vita quotidiana non abbiamo mai compiuto atti barbarici. Insomma, i barbari siamo noi, sfrenati, eccessivi e licenziosi. Non a-morali, ma immorali. Capaci di confusioni atroci, di errori e di nefandezze infinite, ma anche di visioni, estasi e incantesimi per i quali, però, non proviamo l’ebbrezza dei romantici. Chi si mostra in odore di santità è chiamato progressista, moderno e antibarbaro. Chi ammette di avere la cattiveria in corpo è definito antimoderno, reazionario e barbarico. Il primo tende a vincere sull’altro, il secondo tende a cambiare se stesso. Evviva la barbarie.

Sono convinto che se me ne faccio carico, posso ipotizzare di uscire dall’imbarbarimento, un giorno, con qualcosa di nuovo, perché solo dalla barbarie si può uscire con un atto concreto di civiltà e, perché no, di bellezza. Se questo vale, in tutto o in parte, nella vita, figuriamoci nell’arte del teatro e nel lavoro critico. Dunque, la critica non critica per motivi sociali, ai quali ho fatto cenno, ma anche per carenze culturali e tecniche.

Non intendo in questa sede affrontare le questioni di carattere tecnico - legate al sapere e al non-sapere -, anche se credo che esistano e che interessino non solo la giovane critica, ma anche quella che avrebbe dovuto essere alternativa ai ‘baroni’. È un’impresa ardua destrutturare uno spettacolo e per farlo in modo originale è necessario andare al di là dei cliché della tradizione immobile: occorrono conoscenze e abilità assai complesse, meglio se suffragate da esperienze consumate accanto ai maestri riconosciuti del fare teatro.

Per fortuna non esiste un manuale del buon critico. Il lavoro critico non ha canoni da rispettare. Mi sembra tuttavia che abbia ragione Carla Benedetti (citata da Andrea Porcheddu nel suo bel libro Questo fantasma, il critico a teatro) quando sostiene che bisogna “riaprire le porte al pensiero, porre domande a tutto campo, nominare conflitti e lacerazioni, esplorare, distinguere, approfondire”. Se è vero che la separatezza e l’autoreferenzialità sono un tradimento del lavoro critico, bisogna che la critica si riappropri delle armi che gli sono proprie, ritrovi la funzione sociale nel rendere giustizia al pensiero, lavori sulla memoria e con la memoria per scavare, portare alla luce, cogliere l’invisibile, carpire e capire l’immagine, per destinare al futuro il lavoro fatto sul passato, per separare l’autentico dall’inautentico. Occorre che si liberi dal testo e dallo spettacolo per ritrovare il giudizio critico al testo e allo spettacolo, che sia sereno, non affrettato e legato al velo della superficie. Che si liberi dalle oscillazioni dei gusti e dei disgusti contingenti, dalle predilezioni estetiche e dalla partigianeria ideologica, dalla corsa al mestiere come improvvisazione post-laurea (prima) e dalla metodica della rendicontazione afferente alla cronaca teatrale più che al lavoro critico (dopo). Che si liberi “dalla recensione - scrive Porcheddu - per ritrovare la recensione liberata” da censure e autocensure, riserve mentali e impacciati equilibrismi. Che si liberi, aggiungo, dal vincolo assoluto di oggettività, tenendo in buona considerazione anche il livello della soggettività, se è vero – com’è vero -, che è oggettivamente impossibile raccontare uno spettacolo di teatro. In tal senso penso, paradossalmente, che il miglior modo per fare la critica di uno spettacolo sia di allontanarsene il più possibile con la speranza di poterlo almeno sfiorare. Ripensarlo e rimembrarlo nei dettagli vuol dire proprio lavorare sulla memoria e con la memoria dello spettacolo per destinare al futuro uno scritto al quale riconoscere senza riserve un valore letterario autonomo rispetto al testo e allo spettacolo. Dico un valore letterario autonomo.

La conclusione non può che essere inconcludente. La chiacchiera è assordante, il silenzio è vuoto, la dismisura è catalettica. Tuttavia, se è vero che l’uomo morto nasconde fermenti di vita, quelli concernenti la decomposizione del corpo; se è vero che ogni processo degenerativo implica un processo rigenerativo, è ragionevole pensare che il sonno potrà generare il risveglio del lavoro critico addormentato nel bosco. I fermenti ci sono. Mancano le condizioni di fondo del buongoverno, il credito sociale, alcune premesse necessarie a disegnare nuove prospettive di lavoro e la voglia di sentirsi parte di una “comunità”, quella di cui parla Katia Ippaso.

Chi avrà il coraggio di affrontare lo stato d’assedio e di rimettersi in discussione? Chi avrà il coraggio di entrare nel merito delle strategie ministeriali tese ad affermare che il teatro è lo spettacolo d’intrattenimento? Chi sarà disponibile a fare la radiografia del dirigismo distributivo, dei covacci del potere clientelare, delle vecchie e nuove rendite di posizione? Chi chiuderà la forbice abissale che si è aperta tra interessi legittimi e interessi illegittimi, tra il pensare altro e il vincere sull’altro? Quale mondo ha preso il sopravvento dentro di noi? Quale mondo possiamo raccontare, se nutriamo un mondo di morte? Quale energia siamo in grado di bruciare, quale scintilla possiamo generare, se il nostro corpo-mente è apparentemente vivo? Come sarà possibile andare al di là dei propri limiti e delle proprie idee, pensare altro altrove altrimenti, attraversare con paura e con coraggio allo stesso tempo i luoghi di senso? Come sarà possibile generare la follia luminosa di cui ha bisogno il mondo? Come sarà possibile dimenticare questo mondo, quando sarà necessario dimenticarlo, e versare lacrime dopo averlo dimenticato?

Parlare di teatro vuol dire parlare del mondo.

A chi dobbiamo delegare la tutela della nostra immagine e della nostra operatività? A nessuno. Di certo, non alla politica, che insegue - quando va bene -, i bisogni degli uomini, invece di prevenirli. Figuriamoci se può risolvere i problemi di una piccola casta, che appare senza senso in una società votata allo sviluppo che non coincide con il progresso sociale. Nessun principe potrà salvarci. Non c’è bisogno d’interposta persona, tanto meno di maghi o di cavalieri erranti, per ridare concretezza alla nostra utopia. All’orizzonte non vedo un uomo capace di farlo. Anche se ci fosse, non gli delegherei nulla del mio lavoro e della mia vita.

Forse bisognerebbe cominciare dal ‘basso’, dalla ‘base’, come si diceva una volta, dal nostro lavoro quotidiano, con coraggio, con determinazione, con la forza che potrebbe derivare dall’essere parte di una “comunità”. “Non sarebbe bello contribuire a fabbricare un nuovo immaginario, presentandoci l’uno all’altro come comunità?”, si chiede la Ippaso nella sua lettera aperta. Sarebbe bellissimo. A condizione che si prenda atto che la critica subisce sia il danno di una forte regressione sociale e culturale del paese sia lo svantaggio dello stato catalettico in cui giace da molto tempo e che la rende estranea ai problemi del teatro e della comunità nazionale. Nessuno può isolarsi. Nessuno può permettersi di sentirsi migliore degli altri, ma nessuno può concedersi il lusso di considerare intoccabili i “baroni che ci hanno mangiati vivi”. I baroni ci hanno mangiati vivi anche perché ci siamo fatti mangiare vivi. Non ripetiamo l’errore e creiamo un coordinamento dei critici. Dalle domande possiamo, di certo, cominciare o ricominciare. Qualunque perdita è buona per ricominciare daccapo, meno la perdita della parola. A essa sono affidate dignità, sicurezza e integrità. Solo in condizione di non precarietà si può ascoltare la vita. Sogni, sacrifici, deliri, dunque, e impudicizie ci vogliono. Purché siano incontenibili.


Alfio Petrini
Gennaio 2011

domenica 2 gennaio 2011

OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO - Quarto incontro

Quarto incontro - 26 ottobre 2010

NOVO CRITICO 2010 : "UNA"
Alessandra Sini incontra Rossella Battisti

Così è, se ti piace 

Non puoi scegliere cosa accadrà
Non puoi sapere cosa sarai chiamato a vivere
Puoi decidere
In che atteggiamento il tuo spirito si disporrà
Nei confronti del mondo che ti apparirà innanzi
Questo puoi farlo. 
Puoi scegliere se rimanere fuori, provare ad essere l’elemento obiettivo, ma che obiettivo non è, del sistema in cui ti trovi oppure comprendere che all’interno di un sistema di realtà e fantasia tu non sei che una componente variabile e allora abbandonarti a ciò che si scatena sembrerà la soluzione più congrua per immergerti e cercare di cogliere la sostanza di ciò che percepisci. 
Vista
Udito
Tatto
Olfatto
Gusto 
Puoi decidere di attivare ognuno di questi sensi, di diventare  
Istinto puro 
E di farlo attraverso l’intelletto 
Puoi prendere tutti gli strumenti che ti vengono forniti e rielaborare le informazioni che ti arrivano, attraverso la tua sensibilità. Non c’è più giusto o sbagliato, corretto o errato. Si innesca un processo creativo sensoriale. 
Tu
Artista
Si può
Si deve
Essere spettatori ad Arte. Per sé.
Ogni cosa è collegata, non siamo un sistema a chiusura stagna. La nostra progressiva disumanizzazione ci porta ad identificarci con gli schiavi che abbiamo creato per noi

Ad arte

Le macchine.

L’uomo è una macchina perfetta!

No, l’uomo è il più imperfetto, e per questo imprevedibile, robot che si possa immaginare.

Tutto scorre in te in direzioni uguali e contrarie
Dal centro alle periferie
Dalle periferie al centro
La sensazione del bracciolo che tocchi viaggia verso il tuo sguardo che muta il sapore che hai in bocca fino a toccare ciò che odi e a tramutarsi in ciò che annusi
Aria polverosa
Secca
Umida

Puoi fare qualcosa di tutto ciò che viene fatto di te.

Tutto ciò che ti viene dato può essere trasformato; tu non immagazzini dati, idee, immagini ma sei chiamato a ricostruirli, a tuo gusto, nelle tue possibilità, che nessuno sa quali siano. Per quanto cerchi di far rientrare ogni cosa in una pagina da microsoft excel non sei fatto solo per questo.

Sei fatto per uscire dalle righe e dalle formazioni.

Sei fatto anche per reinterpretare
Acquisire e trasformare
Per prendere “Una”, mangiarla, annusarla, guardarla, toccarla, ascoltarla
E trasformarla
Così è, se vi piace

Da profano della danza quale sono non ho che preso le suggestioni dell’artista per ricondurle ad un immaginario che mi era familiare, in un atteggiamento che, mi sembra di aver capito, fosse quello auspicato da Alessandra Sini.

Incapace di lasciar scorrere pure e semplici emozioni il mio cervello ha costruito una storia intorno alle coreografie della danzatrice, evocando un mondo di donne “prime”, intente alla scoperta del proprio corpo e del mondo circostante; non ho potuto fare a meno di vedere un che di mejercholdiano nella studiatissima goffaggine della Sini e nel suo, per me evidente, ritorno ad una primitività, si potrebbe dire ad una “prima danzatrice”.

Ciò che mi ha turbato è stato sentire nelle sue parole, durante il dibattito, una sorta di accanimento verso questa danza da cui proviene, quella classica, che mi ha fatto leggere lo spettacolo come una sorta di critica alla danza piuttosto che l’espressione di un’esigenza artistica; ma forse questa impressione è stata anche dovuta alla stretta focalizzazione sulla danza e sul mondo della danza e sulla storia della danza che la critica Rossella Battisti ha tenuto per tutta la durata dell’incontro.

Gabriele E.
Osservatorio critico Roma2



Statuaria in movimento

“L’arte del mimo è arte del movimento corporeo.
L’arte della danza, pure.  /…/
La danza è un’evasione, il mimo un invasione.
Il danzatore non è neppure danzante, è danzato. Non trasporta niente, neanche il proprio corpo; è trasportato dal corpo, che è trasportato dalla danza.
L’operaio, al contrario, comanda a se stesso il movimento che gli è stato comandato. Il ritmo della danza è un vento che la spinge e il ritmo del lavoro è un respiro che il lavoro spinge.
Il mimo fa il ritratto del lavoro, la danza il ritratto della danza, perché chi danza sulla scena, danza al di là del suo bisogno. Quindi soffre. Traduce i movimenti naturali della danza istintiva in movimenti anti-naturali. Quindi soffre. Distende un sorriso sul suo dolore. Ma perché distende un sorriso sul suo dolore, se non in ricordo del suo modello, che è gioia che fiorisce in sorriso?”

C’è chi, ancora oggi, tende a separare e contrapporre mimo e danza dimenticando forse un po’ troppo rapidamente i contatti e le reciproche influenze dirette e indirette che invece le due discipline sorelle ebbero. Certo, ciascuna nel proprio specifico linguaggio, ma esse non mancarono, e non mancano  tutt’oggi, di inseguire tuttavia percorsi di ricerca che, a volte sotterranei, attingono a linfe vitali comuni.

“A guardar la danza come il teatro
si fa peccato!”
Si sentenzia a voce grande
che per l’aere poi s’espande
la visione in estensione
d’un’arte panoramica
sospesa e assai dinamica
che il cinema ha sfiorato
nel catturar l’ascesi
della sua metacinesi
svelando in movimento
quel che l’atto porta dentro
come casuale trasmissione
di programma in televisione.

Poi pronto s’alza il Timpano
che squilla quale Zampano/(ò)
e squaglia l’opinione
in spot neurovisione
e ad ascoltarla bene
il riso non si trattiene
nella semplice scoperta
del flash in macchinetta.

Lui passa tra le nuvole
mirandole ormai stufe
dei mille pollicini
che le scambian per gattini
e dubbioso
e generoso
lui Arsenio
si fa genio
e accoglie la proposta
del ciel che si rivolta
e grida alle sue ciurme
di finirla col multiforme
che una nuvola
chissà
sempre quella rimarrà.

La danza
è un po’ così
tutti dicono di sì
se lo sguardo s’è riempito
lo spettacolo è gradito
della forma cinestetica
non dia conto la poetica
che soccorre libertà
figlia di curiosità.

La danza di Alessandra Sini è sembrata la proposta di cogliere e raccogliere dal vaso di una Pandora democratica e freudiana quel che più ricordi all’occhio di colui che scruta la reminescenza atavica di un qualche quid smarrito nel tempo.
Un estratto in cui “Una”, nella realtà della sua completezza, prevede un dialogo fisico costruito sulla presenza di “un’altra”, assente nel contesto odierno, la cui mancanza non stenta a farsi materia lasciando libero il pensiero di guardare al vuoto di una metà che comunque si percepisce quale luogo occupante energia viva. Sua sorella: il completamento di un cerchio che la Sini percorre di fatto, sola, ma sicuramente accompagnata in una gestualità carica di tensione nella ricerca del tassello mancante.
E mi pare di poter dire che nella ricerca di Alessandra Sini, nel suo insistere sulle posizioni richiamanti la statuaria, per esempio, risiede parte del lavoro compiuto dal padre del mimo moderno. In un susseguirsi di posizioni ove la Sini ha marcato l’idea della mobilità dell’immobile, restituendo attraverso la tensione definita di una carne che grazie ad una formazione severa “arriva a fare cose che non tutti hanno la capacità di fare” l’autrice di “Una”, volontariamente o meno, mi sembra abbia riportato in vita quel che Decroux ha tentato di ricamare ad arte sul corpo del mimo, partendo dalla convinzione che la statuaria fosse l’esempio perfetto da seguire e da scavare sulle tensioni e sulle intenzioni fisiche del movimento.
Trovare e restituire una dinamica all’immobilità della materia.

Nella sua entrata scenica attraverso il primitivismo curvo di una camminata ci si convince che risieda molto più di quel che s’è visto, e viene la curiosità di seguirla ancora nei percorsi atavici trasferiti su chissà quale nuova era. Ma soprattutto venga “il nuovo” che, come la Sini ha cercato di far capire, è stato straziante per lei ricostruire a partire da un corpo segnato profondamente dalle prime esperienze di danza classica, ma che è giunto fino all’indipendenza artistica che ora le dà un voluto, agognato, filo da torcere.

Mea culpa a nome di tutto dell’osservatorio critico se per “prendere” senza “pretendere” si è scivolati in un silenzio che a posteriori ci si sforza di riempire nella speranza che prosegua un dialogo con tutti gli occhi che, come i nostri, si sono affacciati sul palco dell’Auditorium Universitario per prendere parte attiva a questa preziosa e rara iniziativa.

Maria Rita Di Bari
Osservatorio critico Roma2