
Epica, Etica e Pop  – manovre di uscita dalla post-modernità tra letteratura e teatro.

A   fine novembre, al Kollatino di Roma, in occasione dell’ultimo   appuntamento di Novo Critico, l’Accademia degli Artefatti ha presentato   in lettura alcune scene tratte da «One Day», lo spettacolo di 24 ore  che  doveva debuttare nel 2008 al festival Romaeuropa ma che, a causa di   problemi produttivi, non ha mai visto la luce. Nonostante non sia  stato  portato a termine, per il regista Fabrizio Arcuri «One Day» resta  il  miglior pezzo di teatro realizzato dalla sua compagnia, perché era  “nato  per testimoniare l’assoluta inadeguatezza del sistema” e  coerentemente è  stato “abortito per mano di questa inadeguatezza”. In  effetti «One Day»  aleggia come un fantasma sulla attuale situazione di  dismissione di  spazi e finanziamenti che sta minando il sistema  teatrale italiano,  perché ne è stato forse il primo concreto campanello  d’allarme, e gode  per tanto oggi di una luce quasi “mitica”.
È  inutile cimentarsi in una recensione  di uno spettacolo mai andato in  scena, di cui sono state presentate solo  alcune parti e per di più in  lettura. Sarebbe una restituzione  necessariamente parziale, visto che  «One Day» è un’opera-mondo  estremamente complessa, che avrebbe dovuto  ospitare al suo interno altri  spettacoli, e che proponeva diversi piani  di realtà e filoni di storia  in un intreccio elaboratissimo: dal  rapimento di un bambino rumeno alla  parabola del pupazzo Dolly Bell che  raffigura un coniglio ceceno (ma  Dolly Bell è anche tante altre  cose…), dalle performance live dei Kiss –  il gruppo preferito del  bambino, ma anche l’icona esemplare della  riproducibilità pop, qui  accostata addirittura all’opera di Pechino –  alle avventure del  pornoattore Tito, passando per le maglie noir di un  affare di traffico  d’organi. E questo è solo un assaggio della  drammaturgia elaborata da  Magdalena Barile a partire dalle idee di  Fabrizio Arcuri e dalle  improvvisazioni dei suoi attori – oggi raccolta  in un libro uscito di  recente per Titivillus.
Tuttavia  l’operazione di «One Day» può  fornire uno spunto di riflessione  interessante per leggere una tendenza  che si sta delineando nel teatro  internazionale. «One Day», come  «Spara/Trova il tesoro/Ripeti» – i  diciassette pezzi scritti dal  drammaturgo inglese Mark Ravenhill e  messi in scena sempre da Arcuri – o  come la teatronovela di Rafael  Spregelburd «Bizarra», la cui versione  italiana realizzata da Manuela  Cherubini è attualmente in scena  all’Angelo Mai di Roma, sono tutti  esempi di utilizzo di una forma  insolita per il teatro: il ciclo
1.   Insolita perché la perenne crisi in cui versa il teatro ci ha abituati  a  spettacoli sempre più piccoli, con pochi attori quando non uno solo,   con scenografie ridotte o inesistenti, insomma un teatro “tascabile”  da  poter spostare facilmente e a poco prezzo (con l’unica deroga del  teatro  che lavora sulla visione e intercetta circuiti che si  intersecano con  l’arte visiva).
Il  ciclo non è semplicemente uno  spettacolo più lungo – altrimenti  dovremmo includere in questo  ragionamento anche operazioni come quella  di Peter Stein con «I demoni» –  o una forma che straborda dai confini  abituali del teatro. Certo, sia  in «One Day» che in «Bizarra», ad  esempio, la scelta di realizzare uno  spettacolo fuori scala, fuori  misura, è anche una sfida diretta a un  sistema teatrale (nel caso  italiano) e a una congiuntura economica (nel  caso argentino) che  sembrano voler comprimere il teatro in modo  irrimediabile. Ma la forma  del ciclo ha anche delle implicazioni  drammaturgiche particolarmente  interessanti, che danno il segno di un  tentativo di smarcarsi  dall’estetica del frammento che ha caratterizzato  la stagione del  post-modernismo senza però tornare pedissequamente a  una messa in scena  di tipo classico.
Il ciclo ha a  che vedere con l’epica, ne  è anzi la sua forma classica, e l’epica è  certamente presente in tutte  queste opere, che nella loro complessità  presentano diversi tratti  tipici del racconto epico. A sorpresa,  nell’epoca della comunicazione  rapida e di superficie, sembra sia  proprio il racconto epico, con la sua  stratificazione e il suo tempo di  fruizione decisamente superiore allo  standard abituale, a suggerire  una possibile via di uscita dal  post-moderno, dalla sua frammentazione,  dalla sua negazione del racconto  in favore di un’opera aperta dalle  letture molteplici e tutte  egualmente valide. D’altronde se uno dei  pilastri delle teorie sulla  post-modernità era proprio la fine della  storia – e il concetto  elaborato da Francis Fukuyama altro non era se  non l’attestazione  dell’impossibilità di riprendere un racconto epico  della storia  contemporanea dopo il crollo del comunismo e la messa in  discussione  dell’ideale di matrice marxista del progresso come motore  della storia  –, per converso è proprio con l’epica che la storia  inizia. Perché è  l’epica l’unico genere in grado di partorire i miti  fondativi su cui si  ergono le grandi narrazioni.
Qualcosa  del genere l’ha intuito negli  stessi anni la letteratura, che proprio  nell’ultimo decennio ha cercato  di uscire dall’empasse in cui si era  cacciata tempo prima, messa alle  corde da un minimalismo più di idee  che stilistico. Nel nostro paese si  possono ricordare operazioni come i  «Canti del Caos» di Antonio Moresco,  mentre la New Italian Epic –  termine proposto nel 2008 da Wu Ming 1 per  circoscrivere un’insieme di  autori e opere letterarie uscite a  nell’arco che va dalla seconda metà  degli anni Novanta al primo decennio  del nuovo secolo
2   – è oggi una categoria che anima con forza il dibattito letterario.   Anche se questa definizione prende in considerazione romanzi di   ambientazione storica o metastorica, è possibile proporre un   parallelismo di fondo, magari spurio, con quanto avviene nel teatro dove   invece l’ambientazione è rigorosamente legata al presente e  addirittura  all’attualità. In entrambi i casi, comunque sia, si cerca  nell’epica il  meccanismo in grado di riattivare gli stanchi meccanismi  della  narrazione, la scintilla in grado di “avvincere” il  lettore/spettatore,  come si dice.
Facciamo  subito due precisazioni. La  prima è che l’epica, nonostante sia una  parola che affascina, una parola  “euforica” che evoca vastità di  orizzonti, grandezza di scrittura e  d’impresa – per usare una  definizione della critica letteraria Carla  Benedetti
3   – non è necessariamente intrisa di etica. Ai suoi meccanismi sono   ricorsi anche – e ben prima di teatro e letteratura – gli sceneggiatori   televisivi statunitensi, tanto che le loro serie tv sono il principale   prodotto di intrattenimento di questi anni. Ovviamente con ciò non   voglio affermare che le serie tv siano necessariamente portatrici di   contenuti non etici, ci mancherebbe; ma è giusto sottolineare che la   capacità di rifarsi all’epica e ai suoi meccanismi appartiene anche ai   prodotti commerciali di intrattenimento (per altro il più delle volte   sono prodotti di ottima fattura e che si avvalgono di sceneggiatori di   alto livello). D’altronde stiamo parlando di una “forma”, per quanto   complessa essa sia e per quanto in campo estetico la forma sia anche   portatrice di sostanza; e le forme hanno un valore limitato nel tempo e   nell’utilizzo che se ne fa: se servono a scardinare convenzioni e   illuminare percorsi di ragionamento sul mondo che ci circonda – a   spostare continuamente l’oggetto, dice Fabrizio Arcuri
4,   affinché forma e oggetto non sclerotizzino il loro rapporto  svuotandolo  di senso – hanno un valore contiguo a quel valore sociale  che  riconosciamo all’arte piuttosto che all’intrattenimento. «A volte  le  rivoluzioni passano per l’invenzione di nuove forme», dice Rafael   Spregelburd in un’intervista pubblicata da Lo Straniero
5. Ma, appunto, in questo caso il valore rivoluzionario sta tanto nella forma quanto nell’atto dell’inventare.
Seconda  precisazione: la vera colpa  della post-modernità, dal punto di vista  delle forme estetiche che ha  espresso, sta nel fatto che a causa della  sua formulazione apocalittica  queste si pretendono implicitamente come  un orizzonte estetico  definitivo e impossibile da superare (anche se  allo stesso tempo  inneggiano al perseguimento del “nuovo”, categoria  mitizzata e spesso  equivocata). Inoltre, se e quando queste forme  estetiche vengono  praticate in nome di una critica-denuncia della  realtà coatta della  post-modernità stessa, esse risultano spesso troppo  contigue all’oggetto  della propria critica, rendendo di fatto  impossibile distinguere tra  “adesione” e “denuncia” (per altro in  perfetta coerenza con la  post-modernità dove tutto e il contrario di  tutto collassa nel buco nero  di uno stesso orizzonte senza possibilità  di futuri eventi: forse, da  questo punto di vista, quella sulla  post-modernità è l’unica teoria  filosofica e sociologica ad essere  contemporaneamente apocalittica e  integrata). Insomma, come si fa a  dire se siamo “contro” o “a favore”?  Come possiamo sapere, dentro  questo quadro, se l’arte ha talmente  abbassato la sua voce da farla  confluire in quel “raffinato silenzio”  che è la confusione mediatica –  secondo una felice espressione di  Ascanio Celestini – o se invece sta  gridando a gran voce? Non è dato  saperlo, perché nel mare magnum della  post-modernità non c’è più un  fuori o un dentro, e porre simili  questioni equivale a disquisire del  sesso degli angeli…
Ovviamente  non è vero che non sia  possibile distinguere il grano dal loglio, né  per altro il fatto di  prendere posizione può essere ridotto a un  atteggiamento da stadio  basato sul pro e contro. Le sfumature esistono,  e spesso è da esse che  le contraddizioni emergono non come elemento di  confusione, ma come  forma di illuminazione. Per questo, accanto alle  due precisazioni fatte  nel paragrafo precedente, e conseguentemente ad  esse, va notato che  queste forme di epica – quelle teatrali come quelle  letterarie – non  hanno alcun problema a dialogare con un altro  ingrediente cardine delle  pastoie della post-modernità e della loro  pretesa di confinare il reale  in un eterno presente, un presente  espanso immemore del passato e che  non prevede il futuro: il Pop.
Il filosofo Maurizio Ferraris, in un recente articolo
6   apparso su La Repubblica, scrive che il post-moderno può essere   sintetizzato in tre parole di undici lettere in tutto: Iper Pop Post.   «l’Iper come valutazione positiva dell’eccesso e come rifiuto della   misura, il Pop come miscela di alto e basso nel sistema dei media, e   soprattutto il Post, l’idea di essere postumi, di venire dopo», scrive   Ferraris.
Certamente il ricorso  all’epica cerca di  lasciarsi alle spalle il Post: la rivendicazione è  portata avanti con  forza da parte di questi artisti, tanto che Fabrizio  Arcuri di questo  ragionamento ne fa un fil rouge che  attraversa esplicitamente  la complessa stratificazione di «One Day»;  mentre l’Institute of  Germanic and Romance Studies dell’Università di  Londra ha deciso di  intitolare la pubblicazione degli atti di due  conferenze sulla New  Italian Epic in modo emblematico: “Overcoming  Postmodernism”. Ma l’Iper e  il Pop? Sono elementi costitutivi tanto  della teatro-novela di Rafael  Spregelburd o della maratona di «One  Day», quanto di romanzi metastorici  come «Q» di Luther Blissett (il  precedente nome collettivo del gruppo  di scrittori oggi noto come Wu  Ming) o di scritture debordanti come «I  canti del caos». Tutti questi  oggetti artistici sono “eccessivi”, e  tutti si immergono volentieri  nell’oceano del Pop e ne fanno un elemento  di fascinazione. Questo vuol  dire che la loro voce si unisce al  raffinato silenzio della confusione  mediatica?
Impossibile dare una  risposta univoca,  in grado di fornire una qualche equazione di portata  generale. Alla fin  fine – ed è un bene! – sono sempre le opere a  parlare per se stesse, e  non le teorie. Però si può azzardare  un’ipotesi di massima, e cioè che  quando il ricorso all’Iper e al Pop è  di matrice esclusivamente  seduttiva, esso si situa sulla frequenza del  rumore di fondo, del  raffinato silenzio della confusione mediatica. Se  invece tale ricorso  costituisce sì una fascinazione, ma che ha il  compito non di sedurre,  bensì di aprire squarci di riflessione sul  presente, allora esso si  colloca in una frequenza diversa, dove le  parole sono distinguibili, e i  loro significati, anche se presentano  sfaccettature molteplici, sono  certamente lontani dall’essere ambigui.
In  questo quadro mi sembra che, a prima  vista, il teatro dei cicli e  dell’epica contemporanea presenti qualche  anticorpo in più rispetto a  un fenomeno come la New Italan Epic. Nella  letteratura il ricorso  all’epica è sì un tentativo riuscito di  recuperare un più ampio respiro  a una narrativa che sembrava destinata  ad avere il fiato corto; ma la  narrazione mantiene un grado di  finzionalità decisamente elevato, dove  da questo punto di vista l’epica  non è altro che il nuovo patto  comunicativo tra chi scrive e chi legge,  nient’altro che la “forma in  voga”. Certo, poi questa forma può essere  utile per tornare a mettere  sul piatto della letteratura tematiche  importanti e di più ampio  respiro – ad esempio il “destino dei popoli”,  secondo Wu Ming – ma è  spesso anche un meccanismo strumentale che  utilizza la forma in modo  seduttivo, ed è quindi a forte rischio di  retorica. Nelle arti che  utilizzano la parola questo rischio si  materializza di solito quando si  è convinti, in modo più o meno  manifesto, della superiorità del  contenuto rispetto alla forma; mentre è  il rapporto osmotico tra forma e  sostanza a far scaturire l’alchimia  necessaria affinché un oggetto  d’arte parli davvero a chi lo fruisce.  Non sto ovviamente affermando  che l’intero corpus di romanzi citati da  Wu Ming 1 nel suo saggio siano  retorici, tutt’altro; ma che la loro  finzionalità, il loro “crederci”,  il loro ricorso all’epica per sentirsi  epici, resti un limite – per  altro un limite strutturale, visto che la  narrativa è prevalentemente  “fiction” – all’equazione “epica uguale  recupero di un possibile  discorso sul mondo”. Non dico che questa  equazione non sia possibile,  semplicemente che non è automatica. Perché  manca un aspetto  fondamentale per la letteratura, il terzo vertice del  triangolo che  poggia sull’asse forma-sostanza e che è forse l’elemento  più  importante: la lingua. È la lingua dello scrittore, il suo stile, a  far  sì che il patto comunicativo non resti mera seduzione ma produca uno   spostamento dello sguardo del lettore sul mondo; e non a caso è proprio   la lingua il grande rimosso della letteratura nell’epoca della   post-modernità, è lo stile ad essere finito sul banco degli accusati per   il fatto di costituire un ostacolo naturale alla comunicazione. Da   questo punto di vista un esperimento straniante come «I canti del caos»   di Moresco mi sembra un ricorso all’epica più complesso e riuscito.
Nel  teatro la questione corre su un  altro binario. Perché la riflessione  sulla finzionalità è esplicita e  irrinunciabile, è praticamente il  rovello di ogni teatrante da quando  esiste il teatro. E il tema della  realtà e della finzione è intimamente  connesso alla natura stessa del  medium teatrale. Una buona fetta delle  ultime generazioni teatrali  italiane – a prescindere dal fatto che  utilizzino o meno il genere  epico – hanno declinato, in varie forme  estetiche, un’urgenza comune:  l’urgenza di scardinare in vari modi i  meccanismi della comunicazione,  di mostrare in scena il giocattolo  rotto, spaccato, per poterne  mostrare il funzionamento
7.   Il capitale che il teatro si porta dietro, in questa riflessione, è la   messa in discussione dell’idea di “rappresentazione” (in quanto  elemento  di finzione) che ha agitato le acque del dibattito teatrale   praticamente durante tutto il Novecento. Il risultato – come a   sottolineato Andrea Porcheddu durante l’incontro su «One Day» – è che   oggi ad esempio è possibile assistere a spettacoli, in tutta Europa, che   recuperano meccanismi di racconto e “messa in scena” ma che allo  stesso  tempo presentano quel fenomeno, mutuato dalla performing art,  della  “scomparsa del personaggio” (ovvero quando gli attori stanno  sulla scena  in quanto se stessi, e non perché stanno cercando di  materializzare uno  specifico personaggio). E questa coesistenza – al  contrario di quanto  avverrebbe in letteratura, dove si finirebbe subito  nel campo  nell’esperimento metaletterario – non dà all’opera un alone  di  metateatralità. Al contrario, recupera il patto comunicativo con lo   spettatore sulla base del fatto che assieme a lui l’attore smonta la   comunicazione abituale e i suoi meccanismi.
Tornando  a quel teatro che sta facendo  ricorso al ciclo e all’epica, esso pur  immergendosi nelle acque agitate  del Pop si porta in dote questa  complessa e inesauribile riflessione  dell’arte teatrale sulla  finzionalità. L’essere obsoleto del medium  teatrale, rispetto ad una  post-modernità fatta di ipermedia digitali, fa  sì che il posticcio  della costruzione mediale della realtà sia in  teatro sempre presente ed  esplicito: gli attori (e dietro di loro i  registi) devono  costantemente interrogarsi su cosa dia loro il diritto  di stare in  scena, ovvero su cosa consenta loro di essere credibili di  fronte a chi  li sta a guardare. Non possono richiamarsi a un patto  comunicativo che  gioca sull’immedesimazione per così dire “immersiva”  (come nel cinema,  ad esempio, o nella letteratura), perché lo spettatore  non è da solo  davanti all’opera teatrale: ne è invece egli stesso una  parte, perché  senza lo spettatore il teatro non può fisicamente  avvenire. Il grado  zero del teatro è sempre e comunque l’incontro (anche  fisico) tra  esseri umani, tra spettatore e attore, e se c’è  immedesimazione essa  deve necessariamente passare per le dinamiche  dell’incontro e del  dialogo, del mettersi in relazione. Si tratta di un  dato pratico che ha  però un valore semantico preciso. Un aspetto del  teatro che fa il  palio a quanto afferma il regista Massimiliano Civica a  proposito  dell’autoralità in teatro: «Il regista e gli attori diventano  un  multinarratore che racconta al pubblico e si determina qualcosa che   travalica la comprensione del singolo per dar luogo a un terzo. Chi   l’autore di uno spettacolo teatrale? Secondo me nessuno: a teatro è   sempre un terzo magico che parla ed è costituito dalla relazione
8».   Se a questo ragionamento aggiungiamo il terzo vertice del triangolo  che  dà vita a uno spettacolo, e cioè il pubblico e la sua percezione,   possiamo immaginare il teatro come qualcosa che si manifesta in un luogo   ipotetico che è l’intersezione dove tutti questi soggetti si   incontrano. Se vogliamo, da questo punto di vista, il teatro è un’arte   decisamente più concettuale di tante altre arti.
La  scelta del ricorso all’epica e al  ciclo, allora, non essendo alla base  del patto comunicativo del  teatrante con lo spettatore, non rischia di  invischiarsi in un  meccanismo retorico del quale si tenta uno  smontaggio costante – almeno  in un certo tipo di teatro. L’epica si  delinea quindi come il tentativo  di invenzione di una linea narrativa  complessa e stratifica, che  tuttavia non giustifica di per sé  l’operazione teatrale, semplicemente  perché è “di grande respiro” o  “ben fatta”, come una serie tv, ma perché  inventa una forma nuova dal  potenziale “rivoluzionario” nel senso  espresso da Spregelburd.
Ciò  vuol dire che nel teatro il ricorso  all’epica è un fatto positivo e  non lo è nella letteratura? Ovviamente  non si può porre la questione in  modo manicheo. Come ho già affermato le  opere, siano esse di teatro  che di letteratura, si possono giudicare  solo per ciò che valgono e non  per l’adesione ad una teoria piuttosto  che ad un’altra – e per  fortuna. Credo però che il ricorso all’epica non  possa delinearsi come  fatto virtuoso in sé – “etico” nell’accezione  proposta prima – se non  affronta il suo stretto legame con un alto dei  vertici del triangolo  della post-modernità: il Pop.
Che  poi l’epica possa essere considerata  il nostro pass per la fuga dalla  post-modernità è tutto da verificare.  Non può allontanarsi dall’Iper  senza negare se stessa, e difficilmente  rinuncerà al Pop perché è la  carta che gioca per avvincere lo  spettatore/lettore. Nella sua  negazione del Post, tuttavia, disegna un  orizzonte più vasto verso cui  guadare che già permette di respirare  meglio, di annusare un’aria meno  viziata. E non è cosa da poco.
Graziano Graziani
10 dicembre 2010 
8   Massimiliano Civica intervistato da Attilio Scarpellini, in «Sogno    nella notte dell’estate» di William Shakespeare nella traduzione  di   Massimiliano Civica, a cura di Attilio Scarpellini,    Editoria&Spettacolo 2010.