OSSERVATORIO CRITICO UNIVERSITARIO

coordinato da 
Donatella Orecchia e Roberto Ciancarelli


Osservatorio studenti RomaDue
Giada Oliva
Francesca Bini
Maria Rita Di Bari
Gabriele E.
Laura Pacelli
Agnese Valle


Osservatorio studenti RomaUno
Elena D'Angelo
Francesca Magnini


Decimo incontro - 26, 27, 28 novembre 2010
Novo Critico 2010. "Tre giorni per One Day"
accademia degli artefatti incontra Andrea Porcheddu





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Lo studio proposto dall’Accademia degli Artefatti al Kollatino Underground è ciò che rimane di un progetto da presentare al Roma Europa Festival nel 2008. Progetto fallito per abbandoni produttivi. Di questo abbandono lo studio presenta tutti i sintomi: anaffettività verso gli oggetti di scena, barbe incolte e volti solcati da profonde occhiaie. Si tratta di uno studio presentato a luci accese con copioni alla mano e attori che vanno e vengono dalla platea alla scena. La forma è subito convincente perché si presta in maniera efficace al contesto in cui viene proposta: l’Accademia degli Artefatti ci offre materiale nudo, pronto ad essere vivisezionato, studiato, analizzato.
Lo studio si presenta sotto forma di episodi. Il primo episodio o della donna-pesce è attraversato da originali riflessioni sulla forza dirompente della visione laterale e da chiari riferimenti a certi panorami inquietanti della cinematografia degli ani ’70-’80: Funny Games di Haneke e Strade perdute di Lynch. In un certo senso la dimensione onirica, dissacrante e inquietante dei frammenti citati durante il primo episodio, si presta bene all’umore dello studio presentato dall’Accademia degli Artefatti: i dialoghi degenerano sempre in sit-com paradossali, costellate di nonsense, di perdite momentanee di memoria, di inversioni dei ruoli. Il gioco è accattivante, per certi versi divertente, ma in qualche modo rallentato e reso prolisso dalla presenza dei copioni in scena: la lettura degli attori dilata i tempi della rappresentazione creando spazi vuoti che i performers riempiono sovraccaricando il repertorio gestuale ed espressivo di ornamentazioni, abbellimenti, modulazioni, fino a dare vita a perfette caricature di se stessi.
La seconda parte dello studio si apre col dirompente ingresso di un attore nudo dalla cintola in giù, interessante pretesto per indagare le dinamiche dell’attenzione, che scivola purtroppo in un più scontato gioco di doppi sensi sulle esigue dimensioni del membro. Peccato.
Il terzo episodio o dell’interrogatorio risulta molto interessante grazie alle evidenti capacità dei due attori che si muovono in sincronia perfetta lungo le traiettorie del testo: movimenti, toni, espressioni, tengono viva l’attenzione che altrimenti si perderebbe seguendo le linee confuse di un dialogo che procede a stento sul terreno scivoloso dell’assurdo.
L’ultimo episodio o dei pacchi, pur rievocando atmosfere beckettiane –i due protagonisti dell’episodio sembrano due moderni Vladimiro ed Estragone nell’attesa attuale di un significato che sfugge- non riesce a staccarsi dall’impianto teorico-demagogico sul concetto di libertà e  democrazia, lasciando inattuate le possibilità di una nuova clownerie di acrobazie del quotidiano.

Elena D'Angelo
Osservatorio critico Roma1





Nono incontro - 12 novembre 2010
Novo Critico 2010. Ambra Senatore incontra Rodolfo Sacchettini



Passo
Parrucca verde, Vestito nero.


Immobile. Sotto il bagno di luce della lente Fresnel. Parrucca nera. Vestito verde. Il corpo esatto, come una figurina di cartone ritagliata con precisione estrema. Lentamente si anima. I primi istanti si popolano di movimenti robotici, inumani. Il corpo studia lo spazio, si intrattiene con le dinamiche del disequilibrio e della frammentazione, tagliando l’aria della piccola scena 4x4. Il silenzio della sala è animato dal respiro e dal ritmico scricchiolare delle tavole di legno. Poi: la musica. Il movimento si fa più fluido.  Il mio occhio s’abitua, riconosce, non segue più col dito incerto le lettere di uno strano alfabeto, ma riesce a leggere parole, persino intere frasi.
L’immagine si moltiplica. Due corpi identici che in maniera identica si muovono nello spazio, raccontando una storia di gesti quotidiani, consueti. La mano che sistema i capelli dietro l’orecchio: istantanea di un’umanità che vuole rivelarsi nel flusso dell’agire danzato. Dalla superficie indistinta del movimento affiorano come guizzi dettagli che svelano l’individualità, spesso legati ad un errore volontario nell’esecuzione della coreografia. Come a dire: è nella deviazione dalla norma che l’individuo può sperare di affermare la propria unicità.
Tra gli applausi i miei occhi aspettano ancora, da dietro la tenda: Parrucca nera, Vestito verde. O ancora meglio: Parrucca verde, Vestito nero.

Elena D'Angelo
Osservatorio critico Roma1





L’inciampo

Che una caduta inaspettata generi uno scoppio di ilarità, immerga nel comico l’osservatore è dato per assodato, Charlie Chaplin e Buster Keaton la praticavano alla perfezione, da veri maestri dell’inciampo, si pensi al formidabile duetto in Luci della ribalta. La teorizzazione pirandelliana viene ad informare che il passaggio dal comico all’umorismo è un passo, breve. L’osservatore s’accorge della sofferenza del malcapitato, la sua risata si spegne. Il confronto coi grandi nomi può spaventare, perciò Ambra Senatore ha riposto in un cantuccio due regali, un libro e un cofanetto di dvd su Keaton, destinati a future letture e visioni, quando non avrà più il timore del paragone con quel grande cui non di rado viene accostata per le formule del suo teatro danza, dove alberga lo stupore, causato da un apparente imprevisto. Tutto in realtà è studiato alla perfezione; il doppio,  un piede che cede, una parrucca che vola, una mano che si stacca vengono inseriti ad arte per stupire, disorientare. Contro la sicurezza, che vuol tornare ad insediarsi, immediata deve nascere una nuova forma, che sia tableau vivant o fermo immagine, capace di stupire ancora: perché nel futuro spettacolo di Ambra Senatore la danza sia come la vita, di continuo soggetta a metamorfosi, afferrabile e definibile per poco, poi di nuovo in evoluzione. Un incontro piacevole quello che segue la presentazione del lavoro, in cui giustamente il critico Sacchettini lascia che la Senatore continui a fare teatro mentre parla del proprio teatro.

Laura Pacelli
Osservatorio critico Roma1



Questione di tempi

Daria Deflorian ha scelto di non presentare alcun primo studio.
Da sottolineare questa volontà, non dettata dalle circostanze, di soffermarsi con e sulle  idee prima di metterle in pratica. James Hilmman le fornisce il sostegno teorico “[...]le idee perdono vitalità quando vengono concretizzate. Devono essere covate per farne uscire di migliori”.
Ecco mi pare buona cosa questo suo non cedere all'ansia del risultato, al ricatto della formalizzazione  e della produzione immediata. La necessità quindi di sostare, assecondare i tempi del pensiero,e  non precipitarsi.
E' il rifiuto di quella che la Deflorian definisce la “condanna dell'esposizione”.
Che un artista cerchi il confronto col pubblico in questa fase iniziale di creazione, è raro.
Quando ad esistere è solo l'idea, nuda, senza ancora una traduzione scenica, esporsi al giudizio esterno può essere prematuro ma anche stimolante.
Ambra Senatore, diversamente dalla sua collega ha scelto di non cogliere  questa occasione. Ci ha mostrato un estratto da “Passo”, spettacolo che ha già avuto modo di girare e ricevere riconoscimenti. Ha ritenuto opportuno dover necessariamente “mostrare”. Difatti il nuovo lavoro  quello annunciato, tarda a vedere luce. La Senatore ce lo fa  intuire nella discussione con il critico Rodolfo Sacchettini , esponendo anche i propri dubbi in merito alla sua idea iniziale : costruire  un percorso di movimenti che compongano  immagini cinematografiche. Nel dichiararsi probabilmente non all'altezza delle sue intenzioni , e nell'esprimere la preoccupazione di venir meno ad una certa tempistica, la Senatore ci ricorda che la creazione ha i suoi tempi. Tempi spesso dilatati, che possono portare a non essere “in tempo”. E mentre pensa e tentenna, ci racconta di come l'osservazione della realtà sia la sua principale fonte d'ispirazione: l' anziano marito che aiuta  la moglie a salire tirandola lentamente per un braccio è un intero mondo di gesti, pose e atteggiamenti.
Errare è umano, si dice.”Passo” è volutamente disseminato di errori o “pennellate di umanità”, che intaccano l'apparente perfezione della danza. L'umanità è  tutta in quelle mancanze,i n quei vuoti, in quel qualcosa che non torna e che devia dalle aspettative, è nel rifiuto della pienezza e della riproducibilità. Tutto questo è anche molto ironico. Ci si chiede allora cosa sia l'ironia e ci si interroga su i meccanismi del comico, che  sono imperscrutabili e di difficile spiegazione. La comicità è in fondo una questione di tempi, non  riproducibili con esattezza e precisione.

Giada Oliva
Osservatorio critico Roma2



Ottavo incontro - 10 novembre 2010 
Novo Critico 2010. Daria Deflorian incontra Katia Ippaso



Sé come un altro.

Trattenersi, non mostrarsi per evitare l’eccessiva immediatezza e il finalismo progettuale.
Daria Deflorian sceglie per il pubblico di Novo Critico il racconto dell’idea cardine di Reality, futuro spettacolo che la vedrà protagonista insieme ad Antonio Tagliarini. Nessuna rappresentazione dunque, ciò che abbiamo al momento è la folgorazione di un inizio, l’incubazione entropica di un’idea. L’incontro con il soggetto, racconta l’artista, avviene durante un’assolata domenica di marzo: Daria si imbatte per caso nella storia di Janina Turek, casalinga di Cracovia che dal 1943 al 2000, anno della morte, racconta i dettagli della propria quotidianità senza interruzione e senza mai renderli pubblici. A poco a poco, la scrittura diventa il suo mestiere: i più banali e irrilevanti dettagli vengono annotati su 748 quaderni, quasi si trattasse di libri contabili. Janina non scrive mai di sé, e quando accade lo fa in terza persona, guardandosi vivere. L’intuizione artistica è imperiosa, categorica; il primo impatto fortemente emotivo. Ossessione patologica o meno, poco importa. Il racconto della Deflorian è commovente e commosso, la sua immagine della donna che spiò se stessa quasi come fosse una necessità imprescindibile, è felice e rispettosa. Forse ancora troppo partecipata. Per la domanda di Katia Ippaso sulle modalità della messa in scena non c’è ancora  una risposta precisa. Ciò che è certo sono i molteplici interrogativi che la storia pone agli artisti e al pubblico. E il futuro titolo sintetizza e non lascia scampo: Reality contiene in sé il rapporto tra il reale e la sua rappresentazione. Ci troviamo ancora una volta a riflettere sul paradosso del Teatro, che è per definizione vita artificiale, si, ma partecipata, e che tanto si discosta da quella voyeuristica visione da guardoni che è propria invece del moderno Reality Show. Bisogna lavorare per sottrazione allora, ad eliminare del tutto quel termine mancante. E’ lo stesso lavoro di Janina ad aprire la strada mettendo in gioco la dialettica tra pubblico e privato, tra dicibile e ineffabile. Apparentemente i suoi scritti sembrano inserirsi in un circuito chiuso che elude tanto la dimensione del proprio vissuto emotivo, quanto quella collettiva. Una macchina puntigliosa ferma sulla carta significanti sterili e matematici, dove pathos e ethos si annullano. Eppure, sostiene la Deflorian, l’azione di questa donna sembra aver a che fare con un altrove non raccontato, con una dimensione metafisica da indagare, quasi che la scelta volontaria fosse quella di celare l’essenziale. Inoltre, aggiungiamo noi, se da una parte il soggetto sembra oggettivarsi solo attraverso un’indagine privata e analitica del sé, dall’altra, fanno riflettere la continuità e la decisione di conservare questi scritti. A futura memoria. Nessuna violenza dunque, così come ha suggerito qualcuno. Un tradimento necessario, certo. Di fronte ad un’individualità scissa tra il detto e il non detto – ineludibile punto di partenza- si pone lo sguardo critico dell’arte, a dialogare con la Storia passata e presente, a riflettere sulla propria identità e sulla propria dimensione quotidiana.

Francesca Bini
Osservatorio critico Roma2






Settimo incontro - 5 novembre 2010
NOVO CRITICO 2010 : "Estratti dostoevskijani"
Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia incontrano Simone Pacini



In due

L’attenzione va risposta nelle parole, se ne dicono tante, poche contano, bisogna scegliere con cura ed essere diretti, guardando agli insegnamenti del passato, letterari e teatrali. Nel primo caso Dostoevskij, nel secondo l’avanspettacolo, dove le cose avvengono direttamente ed il pubblico deve essere rapito dagli attori che, sugli umori di quello, plasmano la propria tecnica, capace d’improvvisazione e d’una variazione di ritmo che rende una battuta unica e riuscita. Bisogna lavorare molto, anni ed anni, la noncuranza della critica ufficiale e la rincorsa al piccolo genio di turno che esca vittorioso da un prestigioso premio teatrale devono muovere ad una ferrea e sarcastica critica, ma non abbattere, la scena finale del “Premio Dostoevskij”, dove chi organizza la manifestazione è anche colui che sarà premiato, parla da sé. Il lavoro del teatro è scelta di vita. Tutto questo vogliono comunicare Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia quando nello spazio Kataklisma offrono un assaggio del loro modo di intendere il teatro e si intrattengono nel dibattito che ne consegue. Del grande scrittore russo tornano quasi sussurrate, come ipnotiche, aiutate dagli occhi magnetici dell’attrice, le parole del monologo finale di Alioscia, che ammutoliscono l’uditorio per la loro disarmante purezza, tanto lontana dalla maggior parte delle espressioni culturali del nostro tempo che, se non dicono con violenza, se non riportano l’orrore e le brutture così come accadono nel quotidiano, spesso partono svantaggiate. Come se la fantasia, quando astrae per parlare di temi universali in grado di risuonare sempre, in ogni tempo, significasse essere fuori dal proprio tempo. Si sa invece che gli umiliati e offesi esistono e sempre esisteranno, il ricorso a Dostoevskij che su quelli basa la propria poetica è assai indicativo. Segue un divertente sketch dove chi viene additato come cretino appare più intelligente del superbo dal tono professorale e al silenzio rispettoso del pezzo precedente si sostituiscono risate che a ben guardare testimoniano come si possa mantenere uno stesso significato pur con due registri diversi. In entrambi i frammenti presentati vi è uno stesso sottotesto, in entrambi la morte, gli interrogativi essenziali sulla vita e sul modo di viverla, su quel che avverrà dopo la fine sono il soggetto principale. Si parli del senso della vita, chiede più volte Ventriglia durante l’incontro col pubblico, la Garbuggino lo ascolta silenziosa con convinzione e, al vederli, si ha il pensiero che quando si è in due sia, dopotutto, possibile combattere per il proprio teatro, la propria vita. 
Laura Pacelli
Osservatorio critico Roma2




Settimo incontro - 3 novembre 2010
NOVO CRITICO 2010 - "Studio per un manicomio"
Teatro Forsennato incontra Florinda Nardi




Teatro Forsennato incontra Florinda Nardi.

Università di Tor Vergata, Aula Moscati.
Due attori siedono sul tavolo della commissione d’esame.
Cadute le barriere didattiche ci ritroviamo in un manicomio: sullo sfondo la figura di Carlo Angela, direttore della casa di cura torinese per malattie mentali “Villa Turina Amione”. E’ qui che durante la dittatura fascista Angela salvò, facendoli ricoverare e insegnando loro a simulare le condizioni dei “veri” malati mentali, un gran numero di antifascisti ed ebrei. I protagonisti sono Enrico - Dario Aggioli- fascista che soffre di autismo, e Ferruccio – Angelo Tantillo - ebreo che finge la follia per eludere le leggi razziali.

A risposta di una domanda non formulata,
Enrico si alza: sa ciò che deve cantare e sembra goderne.
Faccetta nera..bell’ abissina…
Aspetta e spera che già l’ora s’avvicina!
Godimento autistico e più che mai illusorio di chi si sente finalmente parte di un sistema.
Enrico ha bisogno della “maschera fascista” e sarà Ferruccio, l’ebreo,
a porgergliela come se fosse un gesto quotidiano, abituale.

Il frammento della nuova produzione di Teatro Forsennato viene presentato al pubblico due volte e interrotto da una discussione tra il regista-attore Dario Aggioli, e il suo compagno di scena. Tra la rappresentazione e la teoria del suo farsi non ci sono tempi morti. La seconda volta si notano il cambiamento e in alcuni casi, le migliorie. Siamo di fronte a un atto performativo meta teatrale molto più esaustivo delle discussioni successive. All’apertura del dibattito vengono comunque chiariti alcuni punti relativi al modus operandi della compagnia: l’utilizzo di un canovaccio autoriale, la pratica improvvisativa, l’inclusione attiva dello spettatore. E’ nel manifesto programmatico di Teatro Forsennato l’intenzione di rivalutare il carattere unico e irripetibile dell’evento spettacolare, a curare il dettaglio del contingente, l’interstizio mutevole del reale. Interessante l’uso della mezza maschera della Commedia dell’arte come strumento di studio da abbandonare lungo il percorso. A tale proposito: i costanti riferimenti alla Commedia all’improvviso, necessari a nient’altro se non ad una sterile categorizzazione, sono sembrati a tratti anacronistici. Nonostante l’utilizzo di alcuni strumenti noti, la volontà della compagnia non sembra certo essere quella di un revival della Commedia dell’Arte, quanto piuttosto il riconoscimento di un metodo utile al proprio lavoro.

Ma qual è il punto secondo me importante della mezza maschera?
Che togliendosela, l’attore deve finalmente capire che è lui stesso, tutto se stesso, una maschera.
A quel punto sei diventato un attore, un attore vero.
Leo de Berardinis-

Francesca Bini
Osservatorio critico Roma2




TRITOLO&DINAMITE
L’han detto.
Forse poi l’han pure fatto.

Che tremendo risveglio l’interruzione da un sogno che ti parlava come fosse verità.
Han zittito una platea esigua,è vero,ma pur sempre rispettabile.

Forse no invece,la memoria mi zoppica e a focalizzar ben bene Dario Aggioli e Angelo Tantillo (Teatro Forsennato) il pubblico l’hanno fagocitato.

E poi gli è toccato scontarla lunga per aver affermato quel che in pochi hanno digerito.

Un ebreo che fugge morte
dal mirino della sorte
in un’epoca lontana
che esigeva razza ariana
e che fronte ad uno specchio
si trasforma nel soverchio
di sua mente sana e lucida
in un’altra tarda e impudica
che rinchiusa già dov’è
canta “    Viva il nostro Re!”
ben convinto che il regime
sia l’amico da obbedire.

Lo han detto e poi lo han fatto.

“ Nei nostri lavori,abbiamo scelto di superare gli psicologismi”.

“Stanislavskij se n’è andato!”
Questo pare ormai assodato
col suo metodo interiore
che ti suscita il fervore
per un che da recitare
come fossi tu a parlare.

Cacciavite poco pratico
tanto che ti rende apatico
della voglia d’esplorare
nuovi muri da forare.
Degli avvitatori è l’epoca
non si turbi la poetica
che se il risultato è quello
non fissarti sul fardello
di qualcosa che s’è spento.

Attenzione platea cara
la notizia non è amara
ma che a voi sia bell’è chiara:
superar NON ignorar
nonostante all’infinito
di grammatica condito
faccia rima con il verbo
che si coniuga alla prima
delle tre la più cospicua.

E’ paura quel che inganna
la risposta di un programma
che sol vede sulla forca
la sua antica e ordita trama
che sul volto alliscia e chiama
la filosofia d’un mito
che l’Aggioli ha sostituito
con proposte ben nascoste
che non sparano alla storia
ma ne cercano di nuova.

A tal punto è cosa stanca
la pretesa che v’arranca
di fissarvi sull’idea di saper
se l’ebreo e il folle (che di stile non è molle)
abbian costruito i tipi
sui colori stabiliti
dall’analisi freudiana
che sua gonna fa campana.

Fuor dal vetro invece un coro
che la psicologia è d’oro
pur mostrando che alle volte
fa da sé la buona sorte
che ti da in eredità
quattro maschere a metà
che col nuovo van riempite
di tritolo e dinamite
per qualcosa da cercare
ma altresì da superare
in quel che chiamano intelletto
dell’attor sotto al berretto
che la psiche è cosa certa
ma superata è l’era di sua scoperta.


Maria Rita Di Bari

Osservatorio critico Roma2




Quinto incontro - 29 ottobre 2010
NOVO CRITICO 2010 : "1° studio per : DIGERLSELZ"
Elvira Frosini incontra Massimo Marino



























Io mangio, tu mangi, egli mangia…

Che rumore disgustoso
Deve fare Polifemo
Mentre divora le sue vittime
Nel buio della caverna dove dimora
E se accendendo delle candeline
Trovassimo Marilyn Monroe
Al posto di Polifemo?

Blastare un’icona?
E perché non più d’una?
In fondo lasciamo che siano delle icone
A rappresentarci
Milioni di Marilyn
Dietro cui si celano altrettanti Manson
Individui cresciuti per divorare
Figli di un’era in cui
Tutto viene prodotto per essere divorato
Nella maggiore quantità possibile
Nel minor tempo possibile
Cibo
Riviste
Automobili
Farmaci
Monumenti
Quadri
Film
Persone
Amici
Artisti
Icone
Se stessi
E la Madonna stessa chi è
Se non una madre
Che altro compito non ha
Se non quello di insegnare al proprio figlio
Che su questa terra
Se non vuole essere bene di consumo
Deve imparare a consumare?

È storia
Che Cristo Nostro Signore
È diventato un bene di consumo.

Elvira Frosini, nei frammenti del suo primo studio per “Digerselz”, apre uno spiraglio su una tematica senza tempo per l’uomo: il cibo. Da un lato elenchi di ogni sorta di pietanza, l’abbondanza e la sovrabbondanza, fino ad arrivare all’eccesso e allo spreco di cibo cui siamo abituati, dall’altro lato il cibo come metafora del consumo, cui siamo ormai dediti, di qualunque cosa: oggetti, persone, idee nostre o altrui.
Contestualizza la propria critica nella più contemporanea società occidentale prendendo spunto da figure immortali, sacre e profane: evoca prima una sfatta diva Monroe e poi una psicotica Maria di Nazareth, entrambe vomitanti parole, per restare in tema di cibo, allarmate e allarmanti presagi di un mondo senza veli di illusorio equilibrio, dentro e fuori di sé, nel malsano rapporto con ciò che le (e ci) circonda. Il tutto senza inutili intellettualismi, senza ridondanze, in maniera cruda.
Elvira Frosini sembra spinta dall’urgenza di una comunicazione lucida e incisiva da cui emerge l’esigenza di esprimere e ribadire, attraverso una certa ironia, la compulsività del nostro atteggiamento fagocitante verso la realtà circostante.
Primo studio per “Digerselz” promette di diventare un ottimo spettacolo, molto attuale e con un “bacino d’utenza” potenzialmente illimitato. Non ci resta che aspettare di vederlo per intero.

[Blastare: prendere in giro, deridere, sfottere con decisione, o render palese l’altrui torto con cinismo, senza alcuna pietà.]

Gabriele E. 
Osservatorio critico Roma2



In cerca

Un vestitino corto a fiorami e una parrucca bionda non fanno di chi li indossa una rediviva Marylin Monroe, di cui il famoso augurio cantato al suo amante troppo importante è ripetuto con distorsione ed abbondanza da Elvira Frosini, che nei suoi due primi appunti decide di mostrare l’eccesso derivante da una visione malata del cibo, piaga come noto del nostro tempo. Occorre dunque operare un’approfondita selezione tra le fonti perché lo spettacolo non cada nel risaputo e nel cliché. Una barricata piena di cibo delle prime prove  che sostiene la Frosini deve significare barricata tra due mondi, politica, barricata con valenza metaforica  viene qui sostituita da un presepe, con l’intento di mantenere l’idea iniziale di divisione. Il personaggio onnivoro straparla, vomita lo schifo del proprio mondo e di ciò che il mondo le offre, ma il troppo che dice non arriva allo stomaco di chi guarda, le parole non possiedono ancora una forza dilaniante, non c’è riso amaro, né ironia dissacrante. Quando il tema scotta, bisogna che esse brucino o si lascino bruciare. Come evidenziato nel dibattito, ciò cui si è assistito non è che una delle molteplici fasi di un lavoro in evoluzione che si interroga costantemente. La Frosini domanda al pubblico ed ascolta con interesse per capire cosa il confronto può offrire alla sua ricerca, dove il cambio di idee ed i dubbi sono necessariamente di stanza. 

Laura Pacelli
Osservatorio critico Roma2



UN PRESEPE DIGERIBILE

In quale misura dovremmo consentire all’arte di raccontare se stessa ce lo spiega la lecita preoccupazione di un autore che durante la realizzazione del proprio parto artistico si dimostra inadeguato a prendersi la briga di vestire i panni di analista e paziente di se stesso contemporaneamente.

Quanta importanza accordiamo alle parole postume di un demiurgo che sino al precedente istante era affaccendato ad addomesticare fil di ferro per restituirlo in nastri da ritmica a chicchessia ce lo spiega invece l’insistenza (anche questa più che lecita) di un pubblico critico o meno che ha la necessità incontinente di riempire taccuini mentali con appunti precisi agognando risposte preferibilmente logiche che provengano dalle note narrative di colui che t’ha appena regalato il massimo di quel che avrebbe potuto.

Quanta sottrazione subisce il simbolo per una smania tutta umana che dia garanzia
d’esaustive spiegazioni,quanti pasti siamo soliti regalare alle audio guide,alle didascalie,ai bugiardini, l’ha smentito Elvira Frosini nell’andamento incerto e multiforme col quale ha viaggiato attraverso il curioso dibattito successivo al primo studio su“Digerseltz”,mostrando e dimostrando che l’opera d’arte non ha padroni e non accetta di essere costretta a dar conto d’interpretazioni definitive.

Senza risposte
per le aragoste
avanzò l’orecchio alle proposte
spastiche
di sentenze drastiche
che in fila col numeretto
smaniavano in sala d’aspetto
per così dire
giocarsi la briga
d’intervenir con letture votate alla sfiga.

Ella,
che ironica e baronica
ne plasmò la sostanza
non seppe azzardare
se fosse Pop il pozzo in cui cercare
o canonica la causa
giù nei riposi di santa Costanza.

Scivolò nelle scarpette
basse, elastiche e nerette
da quei sugheri rialzati
che bei chiodi li han domati
per seder di petto al branco
tolto il crine giallo stanco.

Domandò a chi l’ebbe vista
quale fosse miglior pista
se d’un personaggio rosa
o d’un coro maschio a chiosa
tutto intento a rovesciare
quel che donna tende a fare.

Non d’un opera finita
volle messaggiar schermita
ma d’un fare in divenire
che sue trame ha da cucire
che sia d’uopo la platea
nel prestarsi in assemblea
ma d’ellenica visione
non d’un talk per estensione.

Lei vorace Minotauro
bocca affoga dentro al calco
di ventenni bianco talco
che per vanto di maestà
fatti a pezzi squarterà.

Cibo a sbafo,a volontà
guarda è lei,la sazietà
che s’attacca alla condanna
di bignè gonfi di panna
al colletto impiegatizio
che gli picchia forte il vizio
di quel pomo ormai ingrigito
ben distorto in un vagito.

Tutto è scatola di latta
da ingoiare a suon di Ta-ta
perchè divorare è un’arte
pari a una partita a carte
quando arriva l’uomo giusto
via con l’asso piglia tutto
e se in men che non si dica
togli il naso dalle dita
è per dar conto allo specchio
che t’insulta che sei vecchio.

E se non mangiassi più?
Zitto,arriva Belzebù
che se il bimbo è inappetente
la paura vien che il dente
di un vampiro nel midollo
non poi tanto più indolente
venga a stuzzicarti il collo.

Quale il ponte e il suo confine
tra il mangiar e il restar fine
quale invece sia l’inganno
dell’onnivoro nell’anno
di questore in breve carica
che sua pancia riempie e scarica.

Come provocar reazione
della razza in estinzione
che s’ottenebra ingoiando
e che poi lo fa parlando
senza più posar giudizio
sull’andare del suo vizio
di cantar buon compleanno
a una festa benedetta
in cui abbrustolir capretta
tutto questo ben condito
da un cristiano,probo invito.

In ginocchio una Madonna
d’altri tempi
assai moderni
che l’ha valicato lei
il confine coi plebei
e richiama il bel convivio
d’una cena da spartire
tra lo stomaco e il cervello
che compagni in un ostello
si ritrovan paghi e sazi
della vita e dei suoi strazi.

Eccolo,il presepe vivente. Parlante. Brulicante d’uffici viziati.
Eccola,la bocca sociale impazzita,confusa tra l’ingurgitare immagini intrise di strutto e la totale astensione dal cibo.
Eccola,la bocca dove i denti del giudizio non hanno più ragione di crescere.
Eccola,la pecora nera barricata sul confine di una pazzia che non si può più sciogliere in un Digerselz.
Maria Rita Di Bari
Osservatorio critico Roma2









Quarto incontro - 26 ottobre 2010
NOVO CRITICO 2010 : "UNA"
Alessandra Sini incontra Rossella Battisti

Così è, se ti piace 

Non puoi scegliere cosa accadrà
Non puoi sapere cosa sarai chiamato a vivere
Puoi decidere
In che atteggiamento il tuo spirito si disporrà
Nei confronti del mondo che ti apparirà innanzi
Questo puoi farlo. 
Puoi scegliere se rimanere fuori, provare ad essere l’elemento obiettivo, ma che obiettivo non è, del sistema in cui ti trovi oppure comprendere che all’interno di un sistema di realtà e fantasia tu non sei che una componente variabile e allora abbandonarti a ciò che si scatena sembrerà la soluzione più congrua per immergerti e cercare di cogliere la sostanza di ciò che percepisci. 
Vista
Udito
Tatto
Olfatto
Gusto 
Puoi decidere di attivare ognuno di questi sensi, di diventare  
Istinto puro 
E di farlo attraverso l’intelletto 
Puoi prendere tutti gli strumenti che ti vengono forniti e rielaborare le informazioni che ti arrivano, attraverso la tua sensibilità. Non c’è più giusto o sbagliato, corretto o errato. Si innesca un processo creativo sensoriale. 
Tu
Artista
Si può
Si deve
Essere spettatori ad Arte. Per sé.
Ogni cosa è collegata, non siamo un sistema a chiusura stagna. La nostra progressiva disumanizzazione ci porta ad identificarci con gli schiavi che abbiamo creato per noi

Ad arte

Le macchine.

L’uomo è una macchina perfetta!

No, l’uomo è il più imperfetto, e per questo imprevedibile, robot che si possa immaginare.

Tutto scorre in te in direzioni uguali e contrarie
Dal centro alle periferie
Dalle periferie al centro
La sensazione del bracciolo che tocchi viaggia verso il tuo sguardo che muta il sapore che hai in bocca fino a toccare ciò che odi e a tramutarsi in ciò che annusi
Aria polverosa
Secca
Umida

Puoi fare qualcosa di tutto ciò che viene fatto di te.

Tutto ciò che ti viene dato può essere trasformato; tu non immagazzini dati, idee, immagini ma sei chiamato a ricostruirli, a tuo gusto, nelle tue possibilità, che nessuno sa quali siano. Per quanto cerchi di far rientrare ogni cosa in una pagina da microsoft excel non sei fatto solo per questo.

Sei fatto per uscire dalle righe e dalle formazioni.

Sei fatto anche per reinterpretare
Acquisire e trasformare
Per prendere “Una”, mangiarla, annusarla, guardarla, toccarla, ascoltarla
E trasformarla
Così è, se vi piace

Da profano della danza quale sono non ho che preso le suggestioni dell’artista per ricondurle ad un immaginario che mi era familiare, in un atteggiamento che, mi sembra di aver capito, fosse quello auspicato da Alessandra Sini.

Incapace di lasciar scorrere pure e semplici emozioni il mio cervello ha costruito una storia intorno alle coreografie della danzatrice, evocando un mondo di donne “prime”, intente alla scoperta del proprio corpo e del mondo circostante; non ho potuto fare a meno di vedere un che di mejercholdiano nella studiatissima goffaggine della Sini e nel suo, per me evidente, ritorno ad una primitività, si potrebbe dire ad una “prima danzatrice”.

Ciò che mi ha turbato è stato sentire nelle sue parole, durante il dibattito, una sorta di accanimento verso questa danza da cui proviene, quella classica, che mi ha fatto leggere lo spettacolo come una sorta di critica alla danza piuttosto che l’espressione di un’esigenza artistica; ma forse questa impressione è stata anche dovuta alla stretta focalizzazione sulla danza e sul mondo della danza e sulla storia della danza che la critica Rossella Battisti ha tenuto per tutta la durata dell’incontro.

Gabriele E.
Osservatorio critico Roma2

ALESSANDRA SINI.
“UNA” SOLA, TANTE MEMORIE


Alessandra Sini scompone il movimento in un fluido libero, senza narrazione. Attraverso l’uso di ogni fibra muscolare indugia su pose statuarie altezzose e un minuto dopo simula una pattinata goffa circolare attorno al palcoscenico. La rivitalizzazione di un’iconografia sedimentata, ripresa esplicitamente dalla statuaria classica e orientale, subisce una distorsione. Questa deviazione dalla norma, intesa come “variazione rispetto alla regola”, provoca spiazzamento nello spettatore. E’ proprio qui che si crea il messaggio, poiché chi guarda si riscopre addosso un vissuto di memorie e riflette su ciò che di esse è importante mantenere o eliminare. Viene a galla quella “metacinesi” di cui parla John Martin, dice Rossella Battisti, secondo cui il movimento è un mezzo per trasmettere messaggi da un individuo ad un altro, tenendo conto di uno sguardo che traduce nel familiare qualcosa di non familiare. In assenza di contenuto narrativo, quindi, lo spaesamento risulta perturbante a livello di linguaggio.
“Una” è estratto da uno spettacolo più complesso, che vede in origine anche la presenza di Antonella Sini, sorella di Alessandra. Due corpi, adesso diventano “uno”. Questa deformazione dal duo al solo, spinge la danzatrice a qualificare lo spazio di relazione che esiste tra sé e le parti del suo corpo, a materializzare il fantasma della sorella attraverso la ricerca nei propri muscoli di una presenza altra. Si tratta di fare un uso coreografico dello spazio, tramite l’empatia e la memoria. L’elemento naturale s’inserisce in questa ricerca, grazie ad un lavoro interno e artificiale fatto per scoprire l’essenza stessa della presenza, quindi un archetipo che parla direttamente a chi guarda, senza il filtro dell’estetica.
La disinvolta capacità di raccordare le immagini, la linearità e la forma attraverso la dinamica, produce nella danza di Alessandra Sini una qualità di movimento riconoscibile, eppure non troppo autoritaria. L’uso di materiali di scarto o “di risulta”, come li chiama l’artista stessa, fanno avvicinare lo sguardo e liberano l’interpretazione. Il doppio allora si materializza nella possibilità di costruire un’altra realtà in scena, uno spazio creato soltanto dal corpo che danza, con sé stesso e con lo sguardo dello spettatore. Un “lasciarsi attraversare in mezzo alla condizione” che Alessandra ribadisce come necessità essenziale nella vita di tutti i giorni e che indica come caratteristica connaturata al corpo contemporaneo. Una danza astratta che riesce a contenere insieme elementi naturalistici e una forma che si tramuta progressivamente in dinamica emozionale.

Francesca Magnini
Osservatorio critico Roma1






Statuaria in movimento

“L’arte del mimo è arte del movimento corporeo.
L’arte della danza, pure.  /…/
La danza è un’evasione, il mimo un invasione.
Il danzatore non è neppure danzante, è danzato. Non trasporta niente, neanche il proprio corpo; è trasportato dal corpo, che è trasportato dalla danza.
L’operaio, al contrario, comanda a se stesso il movimento che gli è stato comandato. Il ritmo della danza è un vento che la spinge e il ritmo del lavoro è un respiro che il lavoro spinge.
Il mimo fa il ritratto del lavoro, la danza il ritratto della danza, perché chi danza sulla scena, danza al di là del suo bisogno. Quindi soffre. Traduce i movimenti naturali della danza istintiva in movimenti anti-naturali. Quindi soffre. Distende un sorriso sul suo dolore. Ma perché distende un sorriso sul suo dolore, se non in ricordo del suo modello, che è gioia che fiorisce in sorriso?”

C’è chi, ancora oggi, tende a separare e contrapporre mimo e danza dimenticando forse un po’ troppo rapidamente i contatti e le reciproche influenze dirette e indirette che invece le due discipline sorelle ebbero. Certo, ciascuna nel proprio specifico linguaggio, ma esse non mancarono, e non mancano  tutt’oggi, di inseguire tuttavia percorsi di ricerca che, a volte sotterranei, attingono a linfe vitali comuni.

“A guardar la danza come il teatro
si fa peccato!”
Si sentenzia a voce grande
che per l’aere poi s’espande
la visione in estensione
d’un’arte panoramica
sospesa e assai dinamica
che il cinema ha sfiorato
nel catturar l’ascesi
della sua metacinesi
svelando in movimento
quel che l’atto porta dentro
come casuale trasmissione
di programma in televisione.

Poi pronto s’alza il Timpano
che squilla quale Zampano/(ò)
e squaglia l’opinione
in spot neurovisione
e ad ascoltarla bene
il riso non si trattiene
nella semplice scoperta
del flash in macchinetta.

Lui passa tra le nuvole
mirandole ormai stufe
dei mille pollicini
che le scambian per gattini
e dubbioso
e generoso
lui Arsenio
si fa genio
e accoglie la proposta
del ciel che si rivolta
e grida alle sue ciurme
di finirla col multiforme
che una nuvola
chissà
sempre quella rimarrà.

La danza
è un po’ così
tutti dicono di sì
se lo sguardo s’è riempito
lo spettacolo è gradito
della forma cinestetica
non dia conto la poetica
che soccorre libertà
figlia di curiosità.

La danza di Alessandra Sini è sembrata la proposta di cogliere e raccogliere dal vaso di una Pandora democratica e freudiana quel che più ricordi all’occhio di colui che scruta la reminescenza atavica di un qualche quid smarrito nel tempo.
Un estratto in cui “Una”, nella realtà della sua completezza, prevede un dialogo fisico costruito sulla presenza di “un’altra”, assente nel contesto odierno, la cui mancanza non stenta a farsi materia lasciando libero il pensiero di guardare al vuoto di una metà che comunque si percepisce quale luogo occupante energia viva. Sua sorella: il completamento di un cerchio che la Sini percorre di fatto, sola, ma sicuramente accompagnata in una gestualità carica di tensione nella ricerca del tassello mancante.
E mi pare di poter dire che nella ricerca di Alessandra Sini, nel suo insistere sulle posizioni richiamanti la statuaria, per esempio, risiede parte del lavoro compiuto dal padre del mimo moderno. In un susseguirsi di posizioni ove la Sini ha marcato l’idea della mobilità dell’immobile, restituendo attraverso la tensione definita di una carne che grazie ad una formazione severa “arriva a fare cose che non tutti hanno la capacità di fare” l’autrice di “Una”, volontariamente o meno, mi sembra abbia riportato in vita quel che Decroux ha tentato di ricamare ad arte sul corpo del mimo, partendo dalla convinzione che la statuaria fosse l’esempio perfetto da seguire e da scavare sulle tensioni e sulle intenzioni fisiche del movimento.
Trovare e restituire una dinamica all’immobilità della materia.

Nella sua entrata scenica attraverso il primitivismo curvo di una camminata ci si convince che risieda molto più di quel che s’è visto, e viene la curiosità di seguirla ancora nei percorsi atavici trasferiti su chissà quale nuova era. Ma soprattutto venga “il nuovo” che, come la Sini ha cercato di far capire, è stato straziante per lei ricostruire a partire da un corpo segnato profondamente dalle prime esperienze di danza classica, ma che è giunto fino all’indipendenza artistica che ora le dà un voluto, agognato, filo da torcere.

Mea culpa a nome di tutto dell’osservatorio critico se per “prendere” senza “pretendere” si è scivolati in un silenzio che a posteriori ci si sforza di riempire nella speranza che prosegua un dialogo con tutti gli occhi che, come i nostri, si sono affacciati sul palco dell’Auditorium Universitario per prendere parte attiva a questa preziosa e rara iniziativa.

Maria Rita Di Bari
Osservatorio critico Roma2




Terzo incontro - 20 ottobre 2010
Novo Critico 2010: Frammenti
Santasangre incontra Antonio Audino



Tutto si è fatto linguaggio

Linguaggio:

Capacità peculiare della specie umana di comunicare per mezzo di un sistema di segni vocali che mette in gioco una tecnica fisiologica complessa, la quale presuppone l’esistenza di una funzione simbolica e di centri nervosi geneticamente specializzati.”

(Dizionario della lingua italiana, Zanichelli, 2004)

Stando alla definizione fornita dal dizionario della lingua italiana Zanichelli,il linguaggio, sembra sfuggire a tutto ciò che non riguardi la semiotica vocale. Ma l’assenza di tale sinestesia, negata appunto dal coinvolgimento di quest’ultimo senso, appartiene effettivamente alla quotidiana comunicazione umana?

I Santasangre sciolgono ampiamente questo nodo nella ricerca e nell’ elaborazione di spettacoli multisensoriali, in cui la musica come le immagini, intrecciate al movimento dei corpi sulla scena, stimolano le capacità percettive dello spettatore nella loro totalità.

Effetti di luce e proiezioni, tracce musicali gestite e manovrate dal vivo,oleografie, immagini in continuo divenire e psichedelici elementi scenici, chiamano lo spettatore ad affinare lo sguardo al di là di una limpida fruizione della scena, ponendolo di fronte ad un processo di sperimentazione linguistica in cui l’intenzione comunicativa si trasferisce da un piano narrativo-descrittivo ad uno poetico-evocatico.

Complicità intellettuale nell’occhio di chi guarda, di chi è in scena con il proprio corpo, di chi lo è con l’espressione di una meccanica d’avanguardia. Nel rapporto dei diversi elementi la scelta dei Santasangre è quella di ridurre al minimo la distanza tra forza meccanica e forza umana, ponendo i due soggetti scenici in una totale condizione d’ascolto l’uno verso l’altro: l’attore dovrà rispettare gli schemi video-illuministico-musicali predefiniti e, a loro volta, gli effetti (gestiti in modo volutamente fallibile sull’onda di una messa in scena dal vivo), saranno pronti a sorprendere l’errore,il ritardo,lo scarto rispetto ad una traccia tutta in divenire.

Detto questo, perché i Santasangre eleggono come nuovo mezzo comunicativo le proiezioni oleografiche e le video-immagini?

Sicuramente la scelta non è di genere sensazionalistico bensì riguarda l’essere figli di una contemporaneità avvezza all’utilizzo e alla fruizione della tecnologia.

L’aspetto peculiare di tale fenomeno teatrale, riscontrabile ad esempio nella trilogia “Studi per un teatro apocalittico”, risiede, da una parte, nell’uso della virtualità come attore sulla scena,dall’altra, nel messaggio critico relativo alla stessa e alla sua demonizzazione.

La macchina, proverbialmente manovrata dall’operato umano, si trova a indossare per la seconda volta i panni da protagonista assoluto portando con sé il ricordo e la reinterpretazione di un futurismo del secolo scorso: a suggerire la suddetta analogia parole distorte e neologismi, ripetizioni meccaniche del gesto fisico, scomposizioni dei piani ottici sperimentati in questo caso per dimostrare una posizione polemica e politicamente opposta rispetto alla precedente.

Agnese Valle, Maria Rita Di Bari
Osservatorio critico Roma2



CONTRADDIZIONI IN ERBA - le vere sincronie di errori non prevedibili

Sincronie di errori non prevedibili.
Ma prevista è la previsione che l’errore si paleserà.
Dunque,o ammettiamo che anche il calcolo dell’errore sia errore,o ci pieghiamo al fatto che, di errore, ahi-noi, dell’errore inteso come inciampo nell’ordine costituito del gran creato, quello che scompagina le cose belle e le pone fronte al disordine, con un titolo che preannuncia qualcosa di impreannunciabile, ahi-noi di nuovo, non è aderente parlare.

Se dietro, sotto, più sotto dell’ordine costituito, un tempo risiedeva il grande amico caos, ora, il nostro amico è oramai morto, lasciando posto ad una serie di piani ordinati sui quali abbiamo costruito in maniera rassicurante le nostre caverne accoglienti e sempre più sofisticate.

Personalmente ho avuto l’impressione che i Santasangre non siano abituati ad accogliere di buon grado l’etichetta di alternativi sperimentatori del teatro di ricerca, ma è stato per me impossibile avvertire quanto, al contrario, gli afflati di cui la critica e il pubblico li circonda tendano esattamente a non mancare dal farlo pur mozzicandosi la lingua quando l’istinto si affaccia col suddetto appellativo.

“ALTERNATIVI”.

Bisognerebbe comprendere quali siano i termini di paragone in merito al confronto.
Anche una mela è alternativa ad una pesca in mancanza della pesca.
Un confronto che poggia le sue basi su un’assenza. Brutta partenza. Forse anche un po’ frustrante per una compagnia di “mezz’età”, consolidata da diverso tempo, posta irrimediabilmente davanti alla questione del proprio alternativismo rispetto a qualcosa di cui si suppone che la scena contemporanea sia carente.

Quando è poi la critica stessa a domandare quanto questo fardello pesi sulle direzioni artistiche e sulle sue intenzioni, non fa altro che alimentare la corsa del criceto sulla ruota: sempre la stessa.
E invece di acconsentire alla liberazione di un “gruppo” tuttavia autonomo e cosciente del proprio operato, dalle etichette che le vanno strette, si cimenta in una prova di ostinato luppaggio.


“SOFISTICATI”.
Questo sì.

Sofisticati a tutti i costi. Questo forse.

L’astrattismo è probabilmente pronto a compiere il rischio di seguire un percorso che pian piano porti all’inevitabile scarto del superfluo e all’affinamento di quella minima serie di prospettive ritenute meritevoli di studio forsennato e per questo, messe a punto con la perfezione scientifica d’una passione risolta. Ma le dinamiche artistiche portate in scena dai Santasangre già di per sé vantano un’anima “sofisticata” ancor prima che astratta.
Il rapporto tra teatro e tecnologia, o meglio, la trasfigurazione dell’evento teatrale in un evento multisensoriale, in cui è prevista la scomparsa dell’elemento uomo (o performer che sia) in favore di una materia universale, dalle prerogative non umane ma non per questo prive di un proprio linguaggio comprensibile in primo luogo per l’uomo stesso (poiché è proprio ad esso che si dirige), tutto questo non potrebbe avvenire senza aver sofisticato i propri mezzi espressivi e l’utilizzo degli stessi.
Nulla di diverso da quello che Calvino riconosceva a Leopardi tutto sommato, ritenendo che per esprimersi in modo poeticamente vago, occorre tuttavia una puntuale precisione.

Ed è notevolmente sorprendente scoprire che dietro a questa enorme macchina instancabile fatta di proiezioni, istallazioni video, immagini nel senso scientifico del termine, dunque luce, meccaniche tecnologiche in assenza di volti e men che mai di fonemi sofisticati come le parole, risieda una critica politicizzata nei confronti degli stessi mezzi di cui ci si serve per la messa in scena e per il risultato degli spettacoli o degli esperimenti stessi.

Ma ben istruiti rispetto al prodotto/sintesi della dialettica hegeliana servo-padrone, ci viene il dubbio che per liberarsi di qualcosa, ci si possa incatenare con qualcos’altro.
Dubbio fallibile e poco importante, a mio avviso, poiché tutto quel che conta è che seppur per un tempo breve, si abbia l’impressione che la voce venga fuori direttamente dalla materia, non più dall’uomo, impegnato ora in un sacro e meravigliato ascolto e non nel chiacchiericcio quotidiano ed informe.

Maria Rita Di Bari


Secondo incontro - 15 ottobre 2010
Novo Critico 2010: Esercizi di Rianimazione,
Andrea Cosentino incontra Claudia Cannella.

“La cosa più onesta che possa fare è il cretino”


"Io sono un poeta estemporaneo improvvisatore
Imbecille io son
perché?
perché sì. Insisto sul sì; non faccio del male a nessuno se dico di sì;
quante cose si possono risolvere rispondendo di sì; e allora, sì.”

Più stupidi di così si muore.

“Egli divinizza l'imbecillità, e ci sa dare estratti deliziosi d'idiozia concentrata,
sa comporre delle melodie dolcissime di stupidaggini,sa imbastire lirismi sublimi di vuoto.”
Così Mario Dessy scriveva il  21 dicembre del 1920 nell'articolo “Uomini del giorno” dedicato all'arte di Petrolini .
Senza aver qui  la pretesa e l'audacia di inoltrarmi in un confronto tra Andrea Cosentino e Ettore Petrolini, mi sembra però utile poter rileggere la seconda serata di “Novo critico,” con protagonista Cosentino e il suo Esercizi di Rianimazione, tenendo presente l'articolo di Dessy , che  offre spunti di riflessione in merito alla comicità non -sense .
Perché ridete? Questo ad esordio del dibattito ha chiesto Claudia Cannella a noi tutti lì presenti.
E “Ma perchè ho riso tanto?” suggerisce  Dessy agli spettatori di domandarsi , uscendo da teatro dopo aver assistito ad una spettacolo di Petrolini.
E' forte la tentazione di rispondere “Perché si”, la surreale e geniale risposta a tutte le domande che Petrolini ripete nei Salamini. Summa di scempiaggini e di cretineria.
Sarebbe la risposta più opportuna dal momento che, come  Dessy sostiene “ [...] la grande comicità di Petrolini è al di fuori del gesto, della smorfia, della truccatura e dell'impostazione più o meno stonata della voce. Sono dei fattori che servono ad ampliare la sua comicità ma non ne sono la fonte. Il motore della sua comicità è racchiuso nel segreto della nuova logica che impone al pubblico e che del pubblico s'impossessa. L'arte e la comicità di Petrolini sono tutta una costruzione al di fuori di ogni logica umana anzi sfidante la logica comune e il comune buon senso”.
E gli Esercizi di rianimazione di Cosentino, sono sostanzialmente una sfida. Sfida che l'attore lancia a sé stesso, al pubblico, al teatro e alla logica.
Poche sono le parole o frasi a cui ricorre, prevale la (anti)-manipolazione, rifuggire dal senso ad ogni costo, di oggetti scelti casualmente (una parrucca , una spugna, pezzi di barbie e bambole, una maschera). Lo vediamo arrabattarsi sul palco, senza una struttura precisa, come da sua stessa ammissione, è un gettarsi.  E' il gesto artistico ad  essere prioritario, la sua effettiva esecuzione e le modalità hanno minore importanza. Non c'è nulla da analizzare. C'è un attore, ma soprattutto un pensatore e un teorico, che vuole sperimentare sfruttando l'occasione di un pubblico non pagante, e quindi anche più disponibile ad uscire dalla sala, perché no?, insoddisfatto.
Si sperimentano pensieri e non forme. E il tentativo è a tal punto ardito che una paperella e una gamba di barbie più in là c'è l'abisso.
In fondo Cosentino corteggia  e circuisce un vuoto. E' un adulto con una trombetta che va in bici senza mani sul limitare di un pozzo. Non c'è alcun motivo apparente perché questo avvenga, ma rimane “la cosa più onesta che possa fare”. E noi lì che si ride  di un riso smorzato. Prorompe improvviso, sottratto alla coscienza, e subito raggelato dalle redini della razionalità.
Questo è possibile perché è la performance a stabilire le regole nel momento stesso in cui accade. Il rapporto col  pubblico viene ricercato ma  continuamente e volutamente messo in discussione. Si è distanti da quella complicità a priori tra pubblico, di nicchia e intellettuale, e artista, tipica del teatro di ricerca.
Sul pubblico italiano degli anni '20 , Dessy si esprime in questo modo:
“Perchè il pubblico italiano è persuaso che certi valori artistici, nel teatro siano monopolizzati unicamente da coloro che recitano il dramma o la tragedia, o tutt'al più da quegli attori, comici sì, ma che si producono in vere e proprie commedie serie, in fondo ben costruite. Cosicchè è disposto a chiamare artista un mediocrissimo attore che recita  una tragedia in costume o piuttosto che riconoscere essere le smorfie, i lazzi, e le invenzioni di Petrolini su un piano altissimo di arte.”
La proposta di Claudia Cannella a Cosentino di provare a Rianimare il pubblico dell'Eliseo, pare confermare che lo scenario sia mutato di poco.
E l'impudicizia dell'attore occidentale, che entra in scena con la superbia e la presunzione che una volta al microfono avverrà l'epifania, di cui Cosentino parla, non può non far pensare  al Gastone di Petrolini: l'attore che non ha orrore di sé stesso.

In conclusione, due domande : Quanta perdita di senso il teatro può sopportare? E Quanta perdita del senso del teatro possiamo noi tollerare?


Giada Oliva
Osservatorio critico Roma2





Io, l’essere immobile.
Osservazioni di uno spettatore assente


Sotto il vestito, nulla. Elegantissimo completo che sveste il corpo nudo dell’attore. Come a dire: apologia di una formalità informale. Non può essere un dettaglio casuale. E’ una precisa scelta. Un chiaro invito a porsi in un ottica del non senso comune. Una contraddizione in termini che prepara a quel “campionario di idiozie”, che bene descrive quanto a breve avverrà sulla scena.
Il corpo magro, si muove mollemente nella giacca. Le mani ciondolano esitando. Lo spazio scenico è simile ad uno stretto corridoio. Camminandovi, il corpo costruisce l’attenzione del pubblico disegnando traiettorie indecise: dagli oggetti al microfono, e ritorno. Il breve tragitto diviene lo spazio di attesa, dove è consentito chiedersi: che cosa succederà ora? Quale sarà la prossima mossa?

E la prossima mossa arriva seguendo un percorso a tappe: scelta dell’oggetto, breve analisi delle sue caratteristiche fisiche e sonore, tentativo di animazione, sguardo attonito.
Una dettagliata quanto casuale Autopsia dell’immagine, che svela i meccanismi di rottura dell’oggetto, il punto di dissoluzione del senso logico e l’affiorare di connessioni ridicole.
Un Teatro di Figura dell’Orrore che spaventa e scompiscia nella misura in cui coglie impreparati di fronte alle molteplici e inaspettate possibilità del reale.
Chi ride esorcizza l’inquietante sospetto che nulla sia come sembri.
Chi ride ha paura che il giorno seguente, sotto la doccia, la spugna gli parli con la voce di Cosentino e gli ammicchi dal bordo della vasca, scrutandone le nudità.


Elena D’Angelo
Osservatorio critico Roma1

Qual è il limite?

Qual è il limite che, se superato, fa perdere il plauso del pubblico? Fin dove ci si può spingere, giocando sul nonsense e sull’improvvisazione, senza temere di spezzare il legame con lo spettatore e al contempo l’afflato che spinge alla ricerca? Al pari di un cubo di spugna che tiene in mano e può nascondere numerose possibilità espressive solo scrutandolo a fondo (o, sarebbe meglio dire, giocandoci seriamente), l’artista Andrea Cosentino recepisce l’immediata reazione del pubblico, sulla quale inizia a creare un percorso che nessuno, né lui, né chi lo guarda, sa bene dove andrà a parare. Eliminare ogni scala gerarchica, l’attore è al livello dello spettatore, la parola d’ordine è ‘spiazzare’. ‘Disordinare’ e ‘cercare’, le sue compagne. Sulla scena si trova un insieme sparpagliato di cose, potenziali vitalità nelle mani di Cosentino, di cui si osserva la volontà costante di trascinare il gioco in una terra di nessuno, dove non appena si mette piede è necessario saltarne fuori, per cercare ancora, altrimenti svanirebbe la vena fanciullesca acuta ed attenta ad ogni particolare della materia che, tutta, indistintamente, da quella più nobile alla più povera, può sorprendere, emozionare. Lo studio prevede ripensamenti, idee solo accarezzate e immediatamente abbandonate; coi suoi esercizi, Cosentino più che mostrare un breve ritaglio di un prossimo spettacolo, ha introdotto lo spettatore al suo metodo che, con l’appoggio del suo compagno di viaggio, Francesco Picciotti, punta ad un teatro di figura, di palpabilità, metamorfosi e transizione, incapace di stabilizzarsi, perché chi si ferma è cresciuto. Uno spirito, quello di Cosentino, che si anima nella discussione con Claudia Cannella, che lo ha intervistato, e con l’uditorio per dire assolutamente la necessità di un teatro che faccia dell’immaginazione il suo stendardo di battaglia. Ovviamente una battaglia di bambini che giocano alla guerra, si ammazzano, muoiono e un attimo dopo sono di nuovo in piedi.

Laura Pacelli
Osservatorio Critico Università Roma2
18 ottobre 2010


Spicchi di raglio all’aglio
ai riccioli impepati di striature sorvolate;

Invasione parquet(ggiata) di giocattoli a granata
manipoli
di un padrone di baracca
messa in piedi a spray di lacca

che a fissarla basta un gesto
a mantenerla si fa presto
e a mangiarla in opinioni si fan tutti faraoni

di qualcosa che han capito
prima ancor che insista il dito
sul perché del desiderio
di mostrarsi poco serio

Ché se il serio fosse stolto
di codesto avresti il volto
da affogare tra le mani d’orsacchiotti in marzapane

e al cretino affideresti
la lungimiranza d’amabili resti
proiettando in bel farsetto quel che a quark finor s’è detto

Ma auscultando sott’orecchio
s’è poi perso l’intelletto
di quel genio fulminato
che alle ortiche hai regalato.

Poi maestra
la saggezza
del tuo dire in post scaltrezza
quando al muro
la Cannella
hai trattato da bidella

perché a piedi
dalla luna
t’ha gettato in una duna
domandandosi il perché
tutti ridano di te.

Maria Rita Di Bari
Osservatorio Critico Università Roma2
18 ottobre 2010



La svestizione dell’attore

L’accattonaggio di Artaud. Prima di tutto. Torna, ad introduzione della nuova performance di Andrea Cosentino, una maschera nota. A manovrarne i gesti, Francesco Picciotti, a simularne la voce (registrata e lontana), il suo primo inventore. Nel ristretto spazio di Kataklisma Teatro, il processo teatrale avviene per gradi, nel passaggio dall’esterno - piazza tanto agognata - all’interno.
Il tempo a sua volta pare invertire logica, in un ritorno al futuro che vede sparsi in un angolo cadaveri di oggetti da rianimare e con cui tentare il contatto. Instabile demagogo è il corpo attoriale, quasi fantoccio, ancora non del tutto clownesco. Così, Cosentino rompe il filo logico del discorso, appigliandosi alla mimica e ad una sonorità necessaria. Qualche verso, l’assurdità di un discorso tra una papera di peluche e un ranocchio dalla personalità instabile, una lettura tra l’attore e il suo doppio. Nel jeu de vivre della scena non c’è narrazione ma processualità in atto, ricerca di possibili e ironiche relazioni tra la materialità del corpo e quella dell’oggetto. Si riparte dal non-sense, dal grado zero. Durante il dibattito è Cosentino a spiegare come al di là di un tema da raccontare, siano la domanda e la ricerca sulla propria presenza in scena a dar vita al tutto. Dietro la figura che rappresento, cosa sono io? L’agire attoriale si destruttura e il teatro torna a riflettere su se stesso. E’ forse questo il dato più interessante dell’esperienza presentata da Esercizi di rianimazione. E’ la svestizione dell’uomo-attore che freme e sembra patire nel tentativo di tirare la corda dell’assurdo, di far ridere solo a partire dalla semplicità. Non personaggi, dunque, né individualismi di sorta. La volontà paradossale di chi agisce è proprio quella di abbandonare il potere dispotico della rappresentazione a partire dalla neutralità. Così, un cubetto di spugna acquista la propria identità con un naso rosso, nell’annuire, nel diniego e nella sofferenza oggettuale. Un campionario di scemenze che ad un certo punto diventa sublime, dice Roberto Ciancarelli. E il pubblico ride di un “riso sgangherato”. Eppure siamo solo all’inizio: chiediamo che la corda si tiri ancora e che il clown irrompa con più crudeltà. C’è da irridere un morto.

Francesca Bini
Osservatorio Critico Università Roma2




Primo incontro - 8 ottobre 2010
Novo Critico 2010: primo studio di Aldo Morto,
Daniele Timpano incontra Nicola Viesti.

Immagini frammentarie, ricostruzioni vere e verosimili, popolano il nuovo lavoro di Daniele Timpano, ancora in piena fase di allestimento. L’attore si confronta con l’orizzonte d’attesa di un pubblico ristretto e con l’occhio (più o meno attento) della critica. In scena, lo specchio deformato e deformante della memoria storica collettiva, a sondare ancora una volta i complessi meccanismi di creazione e ricezione comunicativa. Aldo Moro muore il 9 Maggio del 1978 dopo 55 giorni di sequestro. Stampa e televisione ricordano un numero perfetto, includendo nel proprio calcolo un’ immagine che ormai appartiene a tutti indistintamente. Bianco e nero, corpo assassinato, scoperto, martirio (demo)cristiano: "Fate presto", avrebbe detto Andy Warhol. Nel passaggio della morte da archetipo a cliché, nota qualcuno tra il pubblico, si inserisce il tono dissacrante di una recitazione schizofrenica; i fatti di cronaca si fondono alla rielaborazione personale e artificiale dell’arte e il disagio ricettivo sembra esserne la conseguenza necessaria. L’inattendibilità posta volontariamente alla base del lavoro crea uno scarto critico che mira a riattivare le facoltà percettive del pubblico. Timpano irretisce con disinvoltura, provoca, senza che ci si accorga subito della portata della provocazione. Continui avvicinamenti e distanziamenti dall’oggetto, irritano e divertono. A ferire, è soprattutto il dato inventato. All’apertura del dibattito c’è chi lamenta la mancanza di un’esplicita presa di posizione morale e chi si domanda se il teatro di Timpano debba essere inteso come atto politico. I tempi sono tali e i confini così poco netti, minacciati da continue ridefinizioni e ambiguità, che sembra necessario tornare a riflettere sul rapporto tra teatro e politica, o tra il Teatro e il Politico. Si potrebbe esprimere, di prima battuta, lo stupore nel vedere i due termini così disgiunti. D’altronde sono l’uso del linguaggio e la difficoltà di dare un nome alle cose, le spie più importanti di un’odierna confusione di pensiero e di un desolante smarrimento di bussole guida. Andando al di là del semplicistico schieramento tra destra e sinistra (che pure non manca), o delle personali opinioni divulgate, Timpano sceglie di far reagire tutto ciò che di Moro è stato scritto, filmato, ricordato. L’efficacia di questa operazione è data dalla presenza in scena di un corpo scosso e deflagrato che destruttura un’iconografia comune, aprendo alle più svariate possibilità di costruzione. Sono la fisicità e la concretezza del corpo attoriale a creare un vero e proprio cortocircuito con le molteplici proiezioni storico-culturali, ombre mediatiche del caso Moro.

Francesca Bini e Giada Oliva
Osservatorio Critico Università Roma2
14 ottobre 2010




Quando salta la giacca

La distanza dai fatti spesso permette una chiarezza analitica che può sfuggire all’emotività di chi li vive. Se, invece, tale distanza fosse il metro per avanzare una ricerca che persegue l’inciampo, che innesca il dubbio, che mostra la relatività della realtà secondo il punto di vista di chi scruta o guarda sottecchi o affina lo sguardo o sbarra gli occhi, cosa accadrebbe? Ci si potrebbe trovare a farsi travolgere da un magma di parole e improvvisi silenzi ed osservare gesti calibrati, a volte esacerbati, altre pacati, che procedono per opposizione e innescano tramite la reiterazione un ritmo ben definito: quello del teatro di Daniele Timpano. La pluralità dei tempi, memoria personale e collettiva, ricostruzione storica e realtà contemporanea (il presente dell’artista, il suo vissuto che filtra) si intrecciano e insediano nel corpo dell’attore, propriamente calato dentro abiti borghesi che raccontano un’ufficialità apparente e possono improvvisamente andare stretti. La giacca ad un tratto fa soffocare, viene tolta con furia, vola a terra. Poi di nuovo viene indossata. L’inquietudine è in agguato, si percepisce un ambiguo che non approda a soluzione, una sospensione che se muove al riso subito dopo colpisce per stringere nel dubbio e che svela un Timpano che si dibatte tra cattiveria dissacrante e pietismo che seda l’iniziale partitura. Di questo si è trattato nella fase successiva alla presentazione del frammento dell’ultima creazione di Timpano “Aldo Morto”, dove l’artista, il critico che lo ha intervistato e gli spettatori hanno discusso sull’evoluzione dello spettacolo con un’interessante retrospettiva dell’opera di Timpano e della sua accoglienza  presso il pubblico e le giurie di addetti ai lavori, per poi estendere il discorso sui doveri del teatro, sulla capacità di esso di agire nella vita pubblica. Ne è nato un confronto che per l’artista risulta elemento di formazione e informazione utile ai futuri sviluppi del suo lavoro e per lo spettatore, che interviene attivamente, momento di riflessione sul teatro, sul proprio modo di intenderlo, scoperta della fucina creativa di un attore, drammaturgo, regista che anche fuori della scena sfugge come un fluido a nette classificazioni. 

Laura Pacelli
Osservatorio Critico Università Roma2
14 ottobre 2010