lunedì 18 aprile 2011

CONTRIBUTI E APPUNTI


Addentrarsi (su Esercizi di Rianimazione di Cosentino/Picciotti)
 Addentrarsi.
Cercare, tentare, rischiare, mostrare una prova, un percorso, non un punto di arrivo, ma la volontà estrema di percorrere quella strada e di sperimentare, non già di arrivare a conclusione.
Che forse il punto di arrivo, famosa retorica che ci insegnano non appena approdiamo nel mondo del teatro, non è importante quanto i mezzi e le strade che usiamo e attraversiamo per arrivarci.
E tutto il materiale che si utilizza davvero, concretamente lo ritroviamo lì sulla scena.
E anche l'attore, svestito della sua maschera più forte e compiuta, torna a svelarsi pian piano e si lascia semplicemente trasportare dall'esperimento.
Si lascia condurre in un territorio che nessuno conosce.
Si lascia sedurre finalmente dall'atto puro di fare teatro e di tornare a cercare (come ci insegnava Elsa Morante... Di tornare a cercare).
Per questo ridiamo, ma portandoci a casa il nostro silenzio nella tasca della giacca o intrecciato alla sciarpa.
E ritroviamo una serie di piccoli interrogativi nascosti.
E piccole desolazioni e piccole verità e piccolissime lacrime.
Forse non sappiamo cosa sia accaduto davvero in strada o nella sala pulsante di respiri e di muscoli doloranti, uno accanto all'altro da sentirne quasi il movimento dei pensieri o il flusso dell'attenzione più rilassata. Ma in fondo sappiamo che l'azione più importante che è avvenuta è che c'è qualcuno che si è rimesso in gioco. Che si è messo in discussione e che ha provocato, non tanto il pubblico ma se stesso.
E non intendo la provocazione fino a se stessa che molto spesso ci lascia come una programma di spicciola euforia adolescenziale, ma la provocazione che porta con se una serie di conseguenze. E di effetti.
E soprattutto è avvenuta per la prima volta dopo tanto tempo, la messa in discussione di sè. Sì, perchè quando torni a cercare con la semplicità e la purezza primitive (che si trovano solo quando hai davvero la necessità di trovare qualcosa), davvero ti metti in discussione. Ti devi smontare (come erano fatti a pezzi tuti i materiali usati in scena), devi ricominciare da capo e trattare come massa informe tutto quello che sei.
Per non presentare alla fine dei conti la prossima produzione della compagnia attorno al senso della vita e di questa crisi, ma per approdare al lavoro più profondamente umano di due attori che incontrandosi hanno iniziato un vero lavoro insieme.
Utilizzare la crisi e le incertezze che annebbiano i nostri sensi, e la nostra intelligenza molto spesso, per produrre un nuovo senso, per proporre, stimolare, alleggerire e poi scavare dentro le viscere. Non più dimostrare di essere artisti e per questo superiori nel comprendere che cosa accade nel nostro momento storico, ma essere umani.
Mi piace ripetere la parola semplicemente, perchè è questo ci manca di più: la semplicità.
E invece qualche sera lì è avvenuto un fatto che si può definire (ahimè) straordinario. Siamo tutti tornati bambini. Ma non perchè abbiamo nostalgia del piccolo principe o della favole della buonanotte, ma perchè abbiamo guardato, osservato e ascoltato un intero lavoro senza il giudizio più assoluto di ricchi intellettuali - teatranti - letterati- critici - alto borghesi migliori del resto del mondo perchè ne abbiamo capito le regole, ma solo per accogliere realmente quello che ci veniva offerto: uno scambio, un esercizio e fulminanti punti d vista che possiamo mettere in discussione o utilizzare per renderci conto che tutto quello che sappiamo forse non è tutto. Non ci basta. O dobbiamo usarlo per andare avanti.
Quello che davvero è accaduto seppure per pochi dolcissimi attimi, è prezioso: si parla di umanità. Si parla all'umanità, in diversi sensi.
Sull'arte e sull'accattonaggio. Sul mendicare e sul creare, sul lamentarsi e sul giocare, sulla tenerezza e sulle urla scomposte, sul nostro corpo e su quello di giocattoli,
Ma senza la presunzione nauseabonda di chi sa di aver ammaliato una folla di spettatori (esagero un pò, ma è questo lo spettacolo che mi si presenta da un pò di tempo a questa parte).
Solo con la volontà di affrontare il problema più grande di oggi, e con una risata o una lacrima di commozione o un gesto d'impeto rabbioso o con una carezza delicata, o con un buffo guanto di gommapiuma sulla mano, non tanto risolveremo, bensì riusciremo a individuare la possiblità di creare alternative ai facili isterismi cui siamo tutti facile preda (me compresa).
Ringrazio profondamente Andrea e Francesco, perchè sono convinta di avere imparato qualcosa...
Sto cercando di capire cosa; qualcosa dentro si sta muovendo, sta esplodendo, mi sta esplorando, piano piano emerge, poi si assopisce di nuovo, poi di nuovo forse s'illuminerà, ma sono felicemente convinta di avere assistito ad un piccolo miracolo, in cui si affronta l'umanità, noi che viviamo questo momento storico, sociale, privato, politico, artistico, familiare, naturale.
Si è creata una vera relazione, in barba a tutte le bugie e le strategie che arrangiamo ogni giorno. E noi ne eravamo i protagonisti insieme ai clown che sperimentavano possibilità e respiri.
Semplicemente eravamo parte della storia, come nel mondo là fuori. Mentre le cose accadono noi guardiamo. E mentre noi accadiamo le cose si fermano a guardare.
E tutto non può terminare che un caloroso e sincero grazie.

Chiara Fallavollita
21 ottobre 2010

giovedì 14 aprile 2011

MATERIALI E RIFLESSIONI - Nono incontro

LE RIFLESSIONI CRITICHE DI RODOLFO SACCHETTINI

Ambra Senatore: a passi di ironia

Nell’incontro pubblico con Ambra Senatore, dopo la sua breve azione coreografica realizzata con Caterina Basso tratta dall’ultimo spettacolo Passo, sono emerse alcune questioni riconducibili in parte al tema dell’ironia. Che cos’è l’ironia? Come funziona? Che tipo di relazione si innesca con il pubblico? E soprattutto come viene oggi trattata l’ironia, che uso se ne fa e che implicazioni comporta? La sensazione è che in questi ultimi decenni all’ironia si ricorra in maniera sempre più diffusa, come fosse un salvagente. Da strumento di intelligenza e di analisi pare allora trasformarsi in arma, dispiegata per salvaguardare la superficie delle cose, per bloccare slanci o desideri di profondità. Invece di stimolare i pensieri, spingerli sempre più avanti, l’ironia di oggi, spesso brutale e rozza, tarpa le ali, legittima la stupidità. Ma questa non è più ironia evidentemente, bensì la sua degradazione. Di questi tempi, nelle conversazioni, l’”ironia” cialtrona fa ovunque la sua comparsa come un disco rotto, tramuta la riflessione in barzelletta, semplifica, rende tutto ammissibile, detta il ritmo dei dialoghi, dando vita a tratti a una sorta di contrappunto del consenso come fa la risata registrata in una sit-com. L’ironia cialtrona-televisiva tramuta immediatamente la critica in chiacchiera e di questi tempi non c’è da stupirsi: è cosa impervia essere rigorosi, prima di tutto con noi stessi, sforzandosi di distinguere il più possibile la natura di ciò che si ha davanti. Lavorare seriamente con l’ironia è insomma molto difficile e ci vuole una certa grazia, quella del saper stare dentro e fuori le cose, che, molto spesso in scena il “corpo”, col suo strenuo esercizio di una qualità, la presenza, riesce a mantenere meglio rispetto alla “parola”, che appare spesso davvero usurata e consunta, difficile da rianimare.
Cercare di instaurare una relazione “ironica” tra scena e pubblico significa tenere in conto contemporaneamente più livelli di significato; se è vero che l’ironia – semplificando al massimo – è l’affermazione di una cosa per intenderne un’altra (solitamente il suo opposto), il contratto con lo spettatore andrà sempre disegnato in maniera sottilmente ambigua. Guardiamo a cosa accade nella performance della Senatore, ad esempio. A quale livello qui dobbiamo attenerci o, in altre parole, che cosa si sta dicendo su quella scena?  Non si tratta certo di far la morale o di dare dei “messaggi”, ma qualcosa di piuttosto chiaro viene “detto”, e ciò avviene tramite il linguaggio del corpo. Le due danzatrici danno vita nell’arco di pochi minuti e con una certa grazia a una partitura di gesti che paiono continuamente giocare sulla sorpresa. Sembra quasi che le danzatrici si sorprendano dei propri gesti, come “costrette” a eseguire una coreografia, senza aver però la certezza di come questo gioco andrà a finire. Basso e Senatore, con la medesima parrucca e gli stessi abitini, si presentano come due “sorelline”, o addirittura due cloni, in gara forse per il raggiungimento del fantomatico modello comune. Una certa idea di danza, una certa estetica, un certo modo di ammiccare al pubblico funzionano da modello omologato e omologante al quale inavvertitamente si prova a resistere (da parte delle performer, ma anche del pubblico). L’errore e alcune emozioni umane (l’imbarazzo, il pudore, la sgangheratezza) diventano allora gli antidoti a degli stereotipi che imprigionano il corpo, lo bloccano e lo normalizzano. In questa dinamica la coreografia della Senatore prova a costruire non delle vere e proprie narrazioni, ma delle micro-storie, mirco-climi emotivi, riconducibili a un universo umano sghembo e in difficoltà, ma sostanzialmente “simpatico”. Perché simpatico? Perché passibile di identificazione: dietro alla perfezione, fredda e meccanica, del modello si compie lo scarto scivoloso dell’ironia che nasconde e rivela a tratti l’ombra della normalità. Una normalità, che si affanna, più fragile e più calda, e che alle prese con la sua complicata e viva esistenza, può mostrarsi come “eccezione” e finalmente riguardarci.
Che tipo di evoluzione può avere questa dinamica, questa applicazione così corretta di un dispositivo retorico molto semplice? Le strade sono ovviamente tante e inaspettate, e tante le possibili derive, ma dal dialogo con la Senatore emerge un’interessante necessità di continuare a costruire spessore intorno a queste “figure”, forse necessariamente nate in una sorta di scarto bidimensionale, ad andare più a fondo nel ritrarre la “varia umanità”; tramite il linguaggio della danza raccontare i tic, le smorfie, le irregolarità dell’essere umano. È forse proprio in questo scivolamento di piani, dal lineare al franto, che quella ironica diventa una possibile chiave per scandagliare così anche il versante dell’ombra, affondare i propri passi nel “grottesco” – oggi poco e male frequentato dal teatro – per accettare l’enigma della “mostruosa normalità”, quella delle nostre facce e dei nostri corpi.

Rodolfo Sacchettini
19 novembre 2010